Tecniche costruttive e materiali da costruzione nell’Antica Roma

Strabone, geografo greco nato ad Amasea in Turchia (circa 58 a.C. - circa 25 d.C.) che soggiornò lungamente a Roma , in Geografia (V,3.8) cita gli acquedotti, le cloache e le strade per illustrare le più importanti e grandiose opere ingegneristiche romane:

"[...] mentre i Greci ebbero la reputazione di scegliere buoni siti per le loro città, dando la priorità alle bellezze dei luoghi, alle difese naturali, agli alberi ed al suolo fertile, i Romani ebbero la migliore lungimiranza in quelle questioni che i Greci trascurarono, come la costruzione di strade pavimentate ed acquedotti e di cloache che potessero trascinare via la sporcizia della città nel Tevere.
Hanno costruito strade che corrono diritte per tutto il paese, tagliando colline e costruendo terrapieni attraverso le vallate, e di tale larghezza che i loro carri possono trasportare il carico di un battello; e le cloache, coperte da una volta interamente realizzata in blocchi di pietra tagliata, lasciano in taluni punti spazio sufficiente al passaggio di un carro carico di fieno.
E gli acquedotti conducono (a Roma) una tal quantità d’acqua che veri fiumi scorrono per la città e nelle sue fogne; e quasi ogni casa ha cisterne e tubature di servizio e copiose fontane - delle quali (ultime) molto si è preoccupato Marco Agrippa, sebbene egli abbia adornato la città con molte altre strutture.
In breve, i primi romani tennero in poco conto la bellezza di Roma in quanto erano occupati in altre, maggiori e più necessarie questioni, mentre gli ultimi romani, e particolarmente quelli di oggi al mio tempo, pur non trascurando in verità le prime questioni, hanno riempito la città con molte magnifiche strutture. [...]"


ed anche Dionisio di Alicarnasso, (60 a.C. - dopo il 7 a.C.) storico e maestro di retorica in Antichità Romane (III.67.5) esprime il medesimo concetto:

[...] a mio parere le tre magnifiche opere di Roma, nelle quali la grandezza del suo impero può essere meglio apprezzata, sono gli acquedotti, le strade lastricate e la costruzione delle cloache. Io dico questo non solo pensando all’utilità di tali lavori [...] ma anche all’imponenza dei loro costi [...]

Vitruvio in De Architectura I.III 2 detta le tre regole firmitas, utilitas, venustas:

"Tutte queste [le costruzioni pubbliche e private] devono rispondere ai criteri di robustezza, utilità e bellezza.
La robustezza sarà assicurata scavando le fondamenta fino a farle poggiare sulla terra solida e scegliendo con giudizio e senza avarizia i materiali; l’utilità si ottiene con una disposizione giudiziosa degli spazi e senza impedimenti all’uso (cosicché il loro scopo sia debitamente servito) e quando ciascuna costruzione abbia la sua appropriata collocazione (all’interno del tessuto urbano); la bellezza è prodotta da un aspetto piacevole ed elegante dell’insieme del lavoro, e quando le dimensioni delle parti componenti siano debitamente proporzionate le une alle altre."


Questi criteri di solidità, fruibilità ed accessibilità e di un design che curi l’armonia delle parti e che possa dare un senso di piacevolezza estetica alla struttura architettonica sono in fondo le stesse regole a cui dovrebbero attenersi ancora oggi architetti ed ingegneri che volessero realizzare degne costruzioni; queste stesse regole si possono anche applicare a moltissimi altri campi, quali per esempio la realizzazione di un sito web per il quale non a caso si parla di Architettura Web del sito.

(opus craticium )

Fino a circa il III sec. a.C. le mura delle abitazioni private e pubbliche erano realizzate a secco, ovvero senza utilizzare malte leganti ma solo con legno, argilla e pietrame; l’argilla costituiva l’unico legante.

Opera Quadrata (opus quadratum)

Consisteva di grossi blocchi di tufo squadrati in forma parallelepipeda disposti a secco dapprima su semplici file sfalsate e utilizzando blocchi non troppo omogenei, in seguito affinando la tecnica di taglio dei blocchi e ponendoli in opera anche alternando ai blocchi di taglio dei blocchi disposti di testa ad attraversare il muro; per aumentarne la stabilità potevano essere utillizzate staffe di ferro fissate con piombo fuso.
Già le prime mura serviane del VI secolo a.C., furono in parte realizzate in opera quadrata di cappellaccio, il tufo grigio estremamente friabile che si trova nei colli di Roma.
La tecnica del taglio della pietra in blocchi venne meglio appresa a partire dal IV secolo a.C. dalla cultura ellenica e negli anni l’Opera Quadrata continuò ad essere utilizzata anche dopo l’avvento dell’opera cementizia fino a tutto il I secolo d.C. con funzioni strutturali e portanti nelle grandi costruzioni; successivamente verrà utilizzata di rado e solo per fini non strutturali.
Fra gli ultimi utilizzi dell'opera quadrata utilizzata come struttura portante, si possono ricordare nel I secolo d.C. l'acquedotto Claudio ed il Colosseo.

Mura Serviane sull’Aventino - opera quadrata

la sezione delle mura Serviane a via di Sant’Anselmo all’Aventino (IV secolo a.C.); si nota la disposizione alternata di testa e di taglio dei blocchi di tufo giallo di Grotta Oscura

Arco dell’acquedotto Marcio - opera quadrataLocalizza il posto

Acquedotto Marcio al Parco degli Acquedotti (metà del II secolo a.C.)
La struttura originaria venne realizzata in opera quadrata utilizzando tufo di Grotta Oscura per le colonne, tufo dell’Aniene per le pareti dello speco, peperino per i marcapiani inferiore e superiore dello speco e per i conci dell’arco; sopra si vede un resto del condotto della Tepula in opera laterizia.
Le tre file di blocchi di tufo rosso dello speco sono state poste in opera utilizzando della calce per sigillare meglio i massi e presentano delle scanalature semicircolari sulle teste che, una volta giustapposti i massi, creavano dei cavità cilindriche verticali le quali, riempite con la malta, contrastavano lo slittamento dei blocchi di tufo (si vede quella del masso più in alto che non è spezzato).

Gli archi dell’acquedotto Claudio - opera quadrata

Gli archi dell’acquedotto di Claudio (metà del I secolo d.C.) al Parco dei sette acquedotti in questo tratto alti intorno ai 25 metri.
La struttura originaria venne realizzata completamente a secco, senza utilizzo di alcun tipo di malta, in opera quadrata di peperino, utilizzando talvolta anche massi di tufo giallo e di tufo rosso (nella foto si notano ad esempio alcuni blocchi di tufo particolarmente consumati); sopra lo speco della Claudia si vedono i resti del condotto dell’Anio Novus realizzato in opera laterizia per non appesantire troppo la struttura sottostante; si notano anche i resti di successivi consolidamenti in opera laterizia.

Piranesi - Tomo III Tav. 53 “Modo, col quale furono innalzati i grossi Travertini, e gli altri marmi nel fabbricare il gran sepolcro di Cecilia Metella, oggi detto Capo di Bove”

Piranesi - Tomo III Tav. 54 Come il Piranesi immagina le tenaglie descritte da Vitruvio nel De Architectura Libro X, II 2, utilizzate per agganciare i massi da sollevare poi con argano e taglia; nello stesso disegno l’ulivella del Brunelleschi.

Opera Cementizia (opus caementicium)

Opera cementizia: era realizzata con malta e caementa.

Malta

1 parte (in peso) di calce spenta e 3 parti (in peso) di sabbia.

Malta Idraulica

1 parte di calce spenta e 3 parti di pozzolana.
Definizione:
Dicesi idraulica una malta che ha la capacità di indurire anche rimanendo immersa nell’acqua
.

Caementa

Pietre grezze e schegge di pietre quali scaglie di tufo e di travertino, schegge di selce, ma anche pezzi di mattoni e tegole rotte.

Calce

Si ottiene bruciando in fornaci aerate portate a temperature intorno ai 900 gradi pietre calcaree o marmo; per effetto del calore queste si trasformano in calce viva; con l’aggiunta di acqua diviene calce spenta, anche detta calce idrata o calce aerea, la quale, conservata in soluzione liquida, prende il nome di grassello di calce, mentre conservata in polvere viene oggi chiamata fiore di calce.
La calce viva ha un elevato potere disinfettante e negli intonaci a base di calce (spenta) non attecchiscono le muffe.

I romani prediligevano la calce pura (grassa), senza presenza di impurità argillose, e per ottenere la malta idraulica utilizzavano calce e pozzolana; per ottenere una malta impermeabile utilizzavano il cocciopesto, malta a cui è aggiunta della polvere ottenuta dalla frantumazione di materiali di argilla cotta quali tegole, mattoni, anfore; il pesto indica l'atto del pestare in un mortaio i cocci, ovvero un'anfora od una tegola rotte, da cui il nome coccio-pesto.

Calce Idraulica

Solo in epoca rinascimentale venne scoperta la calce idraulica "naturale" (calce magra), ottenuta utilizzando materiale calcareo contenente il 5% - 20% di impurità di natura argillosa o silicea; questo conferisce alla calce proprietà idrauliche, ossia è in grado di solidificare in presenza di acqua, ed anche una certa capacità impermeabilizzante; in generale la resa della calce magra è minore ma la presa è più rapida che con la normale calce grassa.

Pozzolana (harena fossicia)

È un piroclastite frutto di eruzioni vulcaniche esplosive costituito da sabbie e pomici a granulometria variabile, le cui cave più note si trovano a Pozzuoli, ("nel territorio tra Cuma ed il promontorio di Minerva") da cui deriva il nome attribuitole successivamente.
Ne vennero scoperte le notevoli potenzialità a partire dal III sec. a.C.; viene utilizzata primariamente come inerte in sostituzione della sabbia, ma i romani non tardarono ad accorgersi che unita con la calce presenta anche proprietà cementizie e possiede la qualità di conferire alla malta proprietà idrauliche, il che rese possibile la costruzione di ponti sui fiumi e di porti utilizzando fondamenta cementizie immerse nell’acqua.
Vitruvio, De Architectura II.VI 1: "C’é una specie di sabbia che, naturalmente, possiede straordinarie qualità. ... Se mescolata con calce e caementa (pietrisco), indurisce altrettanto bene sott’acqua come nelle ordinarie costruzioni."
La pozzolana non era reperibile in ogni parte dell’impero romano; a Roma esistono numerosissime zone da cui veniva scavata e che hanno lasciato complicati sistemi di gallerie, spesso oggi utilizzate come fungaie (per esempio al parco di Tor Fiscale) o dimenticate sotto i palazzi e le strade della periferia.
La miglior pozzolana è quella di color rosso, mentre quelle grigie e nere hanno minori proprietà pozzolaniche.

Sabbia (harena)

Vitruvio nel De Architectura II, IV scrive: "Nelle costruzioni in opera cementizia è di primaria importanza che la sabbia sia idonea alla miscelazione con la calce, e che non sia mescolata con terra.
... e quella che sfregata nella mano emetta uno stridore è da considerarsi ottima.
... Ma se non è disponibile una cava di sabbia allora si utilizzerà quella di fiume o anche della ghiaia setacciata. Anche quella di mare può essere utilizzata; questa tuttavia asciuga molto lentamente e, costruendo un muro, il lavoro dovrà essere interrotto di tanto in tanto, ed un tal tipo di muro non sarà adatto a sostenere volte. Inoltre quando sabbia di mare venga impiegata nelle mura e queste siano destinate ad essere successivamente intonacate, l’efflorescenza salina deteriorerà l’intonaco.
Ma la sabbia di cava usata nelle murature asciuga rapidamente, lo strato di stucco è permanente e le mura possono sostenere volte. Sto' parlando di sabbia di cava appena estratta. Se questa rimane a lungo inutilizzata ed esposta al sole, alla luna ed alla pioggia questa diviene terrosa."

Opera Cementizia (Opus Caementicium)

I romani cominciarono ad utilizzare l’opera cementizia, il calcestruzzo romano (calce, pozzolana e caementa), già nel III secolo a.C., almeno a partire da dopo l'incendio del 210 a.C.; questo materiale rivoluzionò le metodologie costruttive dell’antichità in quanto consentiva la realizzazione di grossi edifici ed opere pubbliche in tempi brevi ed utilizzando un materiale di facile reperibilità, trasporto e messa in opera (in confronto all’utilizzo dell’opera quadrata).
L’opera cementizia era utilizzata con due modalità differenti:
1- rivestita con un altra pietra o con mattoni,
2- non rivestita o rivestita con l'intonaco.
Nella seconda modalità rientrano le fondamenta e le sottostrutture degli edifici, i podii, le volte intonacate ed anche singole mura con funzioni di sottostrutture portanti; un esempio certo di tale utilizzo è nel podio del tempio della Concordia nel Foro Romano, i cui resti risalgono al 121 a.C., e nel podio del tempio dei Castori, sempre al Foro Romano, la cui ultima edificazione risale al 117 a.C..
Probabilmente il nuovo materiale fu inizialmente utilizzato come nucleo di supporto all'opera quadrata, analogamente a quanto avveniva nel mondo Greco; ben presto però gli architetti romani ne ampliarono il campo di utilizzo.
Nella prima modalità di impiego l'opus caementicium fu utilizzato come nucleo delle mura, rivestite con una opus quale: opus quadratum, opus incertum, opus reticulatum, opus testaceum, opus mixtum opppure opus vittatum.
La muratura era quindi rivestita sui lati da paramenti murari costruiti contemporaneamente al nucleo stesso secondo una tecnica di realizzazione a strati successivi: maestranze esperte realizzavano i paramenti per una certa altezza utilizzando delle casseformi e successivamente operai meno esperti potevano versare all’interno la malta molto fluida e depositarvi la caementa; le schegge di pietra venivano allettate talora in modo caotico, tal’altro in modo estremamente regolare ed il materiale utilizzato nella caementa, la dimensione delle schegge, la disposizione più o meno ordinata e fitta, come pure la qualità della calce e della pozzolana usate, distinguono il cementizio di un periodo da quello di un altro. Quando lo strato era sufficientemente solidificato si procedeva a realizzare il successivo; le cortine potevano essere in mattoni o in blocchetti di tufo o di altre pietre o anche in travertino o marmo; questi ultimi potevano venire meglio ancorati al nucleo utilizzando grappe tra le lastre o staffe di ferro affogate nel calcestruzzo; i fori che si vedono nelle opere cementizie dei monumenti romani furono praticati per sfilare le staffe di sostegno e saccheggiare i monumenti del loro rivestimento o semplicemente per ottenere il ferro degli ancoraggi, come per i buchi nei massi di travertino del Colosseo; alle volte nelle mura in opera laterizia si vedono una serie di fori disposti su file regolari, come avviene tipicamente nelle murature medioevali; è probabile che tali fori venissero realizzati durante la costruzione del muro ed utilizzati per incastrarvi i pali su cui veniva assicurata l’impalcatura durante la costruzione e successivamente nell’eventualità di lavori di restauro.
I paramenti a secondo della tipologia venivano lasciati a vista ma potevano anche essere intonacati ed abbelliti con affreschi, stucchi, fregi e ulteriori cortine di pietre nobili.

opera cementizia di un sepolcro a pilastro

Opera cementizia di un sepolcro a pilastro di epoca imperiale (parco delle tombe di via Latina).
Osservando il nucleo del monumento si notano chiaramente i diversi strati di malta e caementa disposti uno sull’altro.

dettaglio della malta usata in opera cementizia

Dettaglio della malta utilizzata nell'opera cementizia del sepolcro visibile nella precedente foto (parco delle tombe di via Latina).

Realizzazione delle fondamenta di porti e ponti

La scoperta delle proprietà idrauliche che la pozzolana conferisce all'opera cementizia semplificò notevolmente la realizzazione di porti e ponti.
Nel De Architectura V.XII Vitruvio spiega la realizzazione di fondamenta immerse nell’acqua di mare o dei fiumi secondo una di tre possibili tecniche che sono sostanzialmente le medesime che esistono ancora oggi:

Cassaforma allagata

Si costruisce una cassaforma che funzioni da diga con pile di assi di quercia tenute insieme da catene e assi trasversali che vengono saldamente ancorate al fondo; quindi si pulisce e si livella il fondale che rimane internamente alla cassaforma e si riempie lo spazio interno fin sopra il livello dell’acqua con la malta, realizzata con due parti di pozzolana ed una parte di calce mescolate con acqua, e con pietrame (caementa); si osservi che al momento in cui si versa l'opera cementizia la cassaforma è allagata dall'acqua.

Cassaforma stagna

Se non si può reperire la pozzolana allora occorrerà realizzare una cassaforma a doppia parete avendo cura di collegare saldamente le due pareti; l’intercapedine interna viene quindi riempita di alghe ed argilla ben pressate; quindi si àncora la cassaforma al fondo e la si vuota dell’acqua utilizzando pompe a vite o ruote ad acqua; si procede quindi utilizzando la normale sabbia in luogo della pozzolana.

Blocchi prefabbricati

Se tuttavia la violenza delle onde o della corrente impedisce di realizzare la diga allora si costruiscono all’estremità della terra ferma delle solide fondamenta realizzando una banchina a strapiombo sull’acqua; la banchina viene quindi circondata con degli argini di legno che rimangano sopra il livello dell’acqua e che avanzino frontalmente nell’acqua; lo spazio racchiuso dagli argini viene quindi riempito di sabbia fin sopra il livello delle acque; sopra la base di sabbia viene quindi realizzato un pilone in calcestruzzo largo quanto più possibile e che dovrà restare ad asciugare per due mesi; passato tale tempo vengono rimosse le pareti e l’acqua dilavando la sabbia che sostiene il masso lo farà quindi adagiare sul fondo; eseguendo ripetutamente tale procedura si potrà ottenere un avanzamento della terra ferma nell'acqua.

Opera Reticolata (opus reticulatum)

Nel 210 a.C. un incendio distrusse gran parte del centro dell'Urbe; la ricostruzione avvenne utilizzando nuovi materiali (alcune tufi di miglior qualità rispetto ai precedenti, peperino e travertino) ed anche nuove tecniche costruttive.
Venne probabilmente cominciata ad essere usata l’opera incerta (opus incertum), in cui le pietre hanno forma e disposizione irregolari; questa rappresentava un metodo più economico di sostituire l'opera quadrata; nel tempio della Concordia, risalente al 121 a.C., si riconosce nel podio opera cementizia ricoperto all'esterno da opus incerto in tufo, il quale tuttavia non differisce molto dalla cementa utilizzata nel corpo del podio.
Nel corso del II secolo a.C. si migliorò progressivamente la qualità estetica dell’opus incertum e alla fine di quel secolo si giunse all’opera quasi reticolata in cui ancora doveva essere affinata la tecnica di realizzazione dei tufelli regolari.
L’opera reticolata propriamente detta (opus reticulatum) venne utilizzata a partire dall’inizio del I secolo a.C. ed ebbe la massima diffusione nel periodo di Augusto; consisteva nel realizzare un’opera cementizia la cui superficie veniva rivestita di tufelli (cubilia), che consistevano in blocchetti di pietra (generalmente tufo) a forma piramidale tronca e a base quadrata che rimanevano infissi nell’opera cementizia ancora fresca dal lato della cima tronca e disposti in posizione diagonale, ottendo così il caratteristico motivo ornamentale "reticolato"; le mura potevano quindi venire intonacate a calce e decorate da stucchi e marmi o anche essere lasciate con la pietra in vista; dal momento che si sono trovate numerose murature in opera reticolata intonacate ci si chiede perché mai realizzare un’opera così complessa per poi nasconderla con l’intonaco; una spiegazione ragionevole potrebbe essere che tale opus fu pensata e realizzata per essere posta in opera senza intonaco e solo nei secoli successivi, col sopraggiungere di nuovi gusti estetici, e quando ancora le strutture realizzate precedentemente con tali opere murarie erano utilizzate, si prese l’usanza di intonacarle.
La struttura reticolata era esteticamente bella ma tendeva a fendersi in direzione obliqua; scrive infatti Vitruvio in II, 8.1:
I differenti tipi di muro sono l’opera reticolata, che è quella comunemente oggi usata, e l’opera incerta che era in uso nei tempi antichi.
L’opera reticolata è la più elegante ma la sua costruzione tende a fendersi facilmente, perché il letto delle giunture è instabile; al contrario le pietre dell’opera incerta, che giacciono l’una sull’altra in corsi casuali cementati tra loro, formano muri che, sebbene non altrettanto belli, sono più solidi del reticolato.


Vitruvio definisce le sole Opus Incertum ed Opus Reticulatum e quindi l’opera quasi reticolata è una arbitraria tipologia definita dagli archeologi in epoche successive.
Anche l’opus mixtum non viene definito da Vitruvio che però muore il 23 a.C., quando l’uso del mattone si stava appena cominciando a diffondere.
Le dimensioni del lato di un cubilia erano alquanto variabili: spesso circa 10 centimentri o poco meno, ma si possono anche vedere numerosi esempi di cubilia più grandi.

opera reticolata

Opera Reticolata (Opus Reticulatum) (nei pressi del Sepolcro Barberini - parco delle tombe di via Latina) con la caementa interamente in scaglie di tufo.

opera quasi reticolata

Opera Quasi Reticolata (Sepolcro Fortunati 25 - parco delle tombe di via Latina)

Opera Mista (opus mixtum)

A partire dall’epoca Augustea con la diffusione del mattone cotto in fornace si perfezionò l’opera reticolata utilizzando fasce orizzontali di mattoni alternate a tratti in opera reticolata; questo irrobustiva la struttura ed ovviava al problema delle fenditure oblique dell’opera reticolata.
Nel periodo dei Flavi tale tecnica si affinerà ulteriormente con l’utilizzo di ammorsature laterali in mattoni.

Opera mista

Opera mista - villa delle Vignacce - Parco degli Acquedotti

opera mista Alta Risoluzione

Opera mista con cubilia in selce - Sepolcro Ottagonale - VI miglio dell'Appia Antica

Opera Laterizia (opus testaceum e opus latericium)

Utilizzata a partire dal periodo Augusteo e per tutto il periodo Imperiale, consisteva di mattoni di argilla cotti al sole nell’opus latericium e cotti in fornace nell’opus testaceum e con opera laterizia si fa generalmente riferimento ad entrambe le tipologie.
Nel libro II del De Architectura Vitruvio scrive che i mattoni dovevano essere prodotti in primavera o in autunno affinché si asciugassero con la giusta velocità; asciugando troppo in fretta si creerebbe un differenziale di umidità tra la superficie e l’interno che porterebbe alla rottura del mattone; inoltre asciugando diminuiscono il volume e necessitano quindi di una stagionatura di due anni.
Ancora lo stesso autore definisce tre tipologie di mattoni derivate dalla architettura ellenica: didoron, pentadoron e tetradoron rispettivamente lunghi due, cinque e quattro palmi (un palmo = 1/4 di piede = circa 7,5 cm); ogni misura era accompagnata da mattoni lunghi la metà, in modo da poter agevolmente disporre i mattoni in maniera sfalsata per accrescere la solidità del manufatto.
I mattoni cotti al sole se pur più economici risultavano piuttosto insicuri essendo più soggetti all’aggressione degli agenti atmosferici e potendosi spaccare facilmente.
I mattoni potevano essere di forma triangolare per aumentare la presa tra la cortina ed il nucleo in opera cementizia, disponendoli con i vertici verso l’interno del muro e colando tra le due file di mattoni il cementizio.
Il laterizio poteva essere successivamente intonacato o ricoperto con stucchi e marmi.
Si cominciò in seguito a costruire edifici espressamente pensati per rimanere con i mattoni a vista; il primo grande edificio del genere furono i Mercati Traianei all’inizio del II secolo d.C.(?)
Nella seconda metà del II sec. d.C.(epoca degli Antonini) si sviluppa la tecnica del laterizio policromo, ottenendo diverse colorazioni del mattone a seconda della temperatura e della qualità di argilla usata (ad esempio il sepolcro di Annia Regilla ed il sepolcro Barberini).

Laterizio Policromo

Laterizio policromo (dettaglio della tomba Barberini)

Giovan Battista Piranesi
Tomo III Tav. V - Ustrinum pubblico al VI miglio della via Appia; un esempio di opera laterizia con mattoni triangolari e relativa opera cementizia.

Opera Listata (opus vittatum)


Tecnica in uso a partire dalla fine del II secolo d.C. in cui i due paramenti esterni che vanno a rivestire il nucleo in opera cementizia sono realizzati con blocchetti di tufo di forma parallelepipeda (tufelli) alternati ad uno o più corsi di mattoni.
Si potevano anche avere pareti realizzate con una alternanza di una sola fila di mattoni ed una sola fila di tufelli.
Per irrobustire la struttura venivano utilizzate anche delle ammorsature laterali in mattoni sugli spigoli di mura, porte e finestre.

Opera listata - villa dei Sette Bassi

Opera listata - villa dei Sette Bassi - metà del II secolo d.C.

Ammorsature in Opera listata

Ammorsature in opera listata - villa dei Sette Bassi - Parco degli Acquedotti

opera listata

opera listata - quadriportico del Mausoleo di Romolo - Appia Antica - inizio IV secolo d.C.


I Pavimenti Romani

Cocciopesto e Signino (coccio pisto - opus signinum )

Il Cocciopesto è un aggregato particolarmente adatto per “impermeabilizzare” la malta di calce (oltre che per renderla idraulica).
Si ottiene mescolando una parte di calce, due parti di sabbia o pozzolana ed una parte di polvere ottenuta pestando coppi, tegole e vasi di terracotta fino ad ottenere la desiderata granulometria.
Era utilizzato per impermeabilizzare cisterne per l’acqua, piscine termali, gli spechi degli acquedotti e per realizzare pavimenti.

impermeabilizzazione del condotto dell’Acqua Marcia

Cocciopesto utilizzato per impermeabilizzare il condotto dell’Acqua Marcia (strato laterale) (parco degli Acquedotti).

Opus Signinum

Il cocciopesto, utilizzato nella pavimentazione viene chiamato Signino (opus signinum); fu il tipo di pavimento più utilizzato a partire dal III secolo a.C., da prima dell'avvento dell'opera cementizia nelle mura degli edifici e fino al I secolo d.C. con la massima diffusione in epoca tardo repubblicana.
Il signino era un pavimento economico, continuo, impermeabile e durevole; consentiva una buona pulizia e raggiunse notevoli valori estetici quando prese ad essere abbellito allettando nello strato di cocciopesto delle tessere di mosaico bianche e nere o policrome disposte a formare disegni geometrici, creando sulla pavimentazione fasce, cornici e riquadrature a sottolineatura dei diversi spazi abitativi; si ottenevano anche semplici decorazioni spargendo schegge irregolari di marmo o di pietre bianche o colorate ottenendo così un effetto puntinato; normalmente sullo sfondo rossastro del signino venivano utilizzate tessere bianche o anche bianche e nere per realizzare le figure geometriche; l’uso delle tessere colorate rimase comunque limitato; le tessere e le schegge non coprivano in modo uniforme il pavimento, lasciando ampi tratti visibili di signino.

Opus Vermiculatum

era descritto da Lucilio come formato da tasselli marmorei oblunghi somiglianti a vermi; venne poi chiamato Opus Museum da cui si origina la parola mosaico.

Opus Sectile

era un pavimento di grande pregio che consisteva di sottili fette di marmo, chiamate crustae da Plinio e sectilia da Vitruvio, di vari colori e molteplici forme tagliate a misura ed incastrate tra loro a realizzare un intarsio marmoreo di disegni geometrici ed anche figurativi anche molto complessi; ovviamente il lavoro richiesto per la realizzazione di tali pavimenti era enorme; all’estrazione specializzata delle piccole tessere di marmo, il taglio delle crustae, lavoro particolarmente insalubre in quanto oltre ai pericoli derivanti dalla normale estrazione in cava si aggiungeva il fatto di dover respirare a lungo le polveri generate dalla lavorazione delle crustae, erano mandati i criminali condannati.

L’utilizzo del signino venne appreso dalle civiltà insediate nel Mediterraneo Orientale, i Greci e poi i Punici; si utilizzava un pavimento con malta, polvere di terracotta e pietre calcaree bianche nei palazzi greco-punici di Selinunte prima della distruzione del 272 a.C. e venne quindi adottato dai greci della Sicilia e della Magna Grecia e da questi la tecnica venne appresa dai popoli italici. I Romani lo chiamarono signino dal nome della città di Signia, oggi Segni, grosso centro di produzione laterizia famoso soprattutto per la fabbricazione di tegole.

Realizzazione del solaio

Nel De Architectura VII.I Vitruvio spiega la tecnica di costruzione di un solaio:
"... Se il pavimento poggia direttamente sulla terra, il suolo deve essere esaminato, ad accertare che sia dappertutto solido, e quindi sopra questo sarà steso uno strato di pietrame. Ma se in qualche parte questo risulta soffice, dovrà essere prima solidificato."
Il solaio veniva quindi realizzato utilizzando legno di quercia; sopra questo si stendeva della felce o della paglia in modo da evitare che la calce venisse a contatto col legno.
"Quindi, sopra questo disporre la base, composta di pietre di dimensione non inferiore a quelle che possano essere contenute in una mano. Dopo che la base è stesa, su questa viene posato il pavimento; mescolare pietre frantumate [pietrisco - ghiaietta] nella proporzione, se queste sono nuove, di tre parti per una parte di calce; se queste provengono da vecchio materiale riutilizzato, si utilizzeranno cinque parti di pietrame con due parti di calce. Successivamente si disponga la mistura di pietra frantumata e calce e, con l’aiuto di numerosi uomini, si batta ripetutamente e lungamente con spatole di legno per solidificarlo, e dovrà avere uno spessore di non meno di tre quarti di piede quando sarà terminato.
Su questo si dispone il nucleo, consistente di tegole e ceramiche frantumate e calce nella proporzione di tre parti ad una, formando uno strato di non meno di sei pollici. Sopra il nucleo, il pavimento, sia che sia fatto in pavimenta sectilia (pavimento suddiviso in fette di varia forma) sia che sia fatto con tessere, dovrebbe essere steso accuratamente, utilizzando regolo e livella.
... se [il pavimento] consiste di sectilia, allora ovali, o triangoli, o quadrati, o esagoni, non devono essere attaccati su differenti livelli, ma devono essere tutti collegati insieme sullo stesso piano.
Se questo è realizzato in tessere, tutti gli spigoli devono essere a livello...
L’opera testacea spicata Tiburtina, richiede un’attenta rifinitura, senza che siano lasciati vuoti o creste. Quando la lucidatura sia finita, intendendo il processo di levigatura e pulizia, setacciare polvere di marmo sopra questo, e stendere uno strato di calce e sabbia [a riempimento degli spazi tra i mattoni]"

Pavimento in laterizio

Nel I secolo d.C. il laterizio soppianterà il signino nella realizzazione dei pavimenti.
Dal Signino al pavimento laterizio [saggio di Alfonso Acocella e Gianni Masucci, a cura di Davide Turrini]

Opera spicata (opus spicatum)

Utilizzata nelle pavimentazioni e raramente nelle murature; i mattoni rettangolari venivano disposti a spina di pesce con intersezioni fra i mattoncini a novanta gradi.
L’opus spicatum in laterizio è il tipo di pavimento maggiormente diffuso in età imperiale.
I mattoni utilizzati sono di piccole dimensioni: circa 10 per 2 centimetri per un’altezza di 5 centimetri, vengono cioé poggiati sul lato stretto, in verticale.


Rocce e pietre da costruzione

Questi sono i principali materiali utilizzati nelle opere di Roma antica; in altre regioni dell’impero romano le varie opus venivano realizzate utilizzando i materiali reperibili in quei luoghi; il trasporto dei materiali da costruzione era infatti piuttosto dispendioso e veniva quindi minimizzato per quanto possibile.

Cappellaccio

Tufo grigiastro friabile presente a Roma e sui Colli Albani; venne utilizzato in epoca arcaica fino al v secolo a.C..

Tufo di Fidene

Tufo non molto utilizzato.
Fidene, la cui acropoli sorgeva probabilmente sulla collina di villa Spada, in epoca repubblicana rimase di volta in volta sotto il controllo di Roma e di Veio e divenne definitivamente colonia romana dopo la conquista di Veio; con questo tufo fu realizzato il ponte Salario (il ponte sull’Aniene della via Salaria nella direzione entrante in Roma); sotto le varie ricostruzioni moderne restano ancora visibili ed integri i due piccoli fornici laterali di epoca repubblicana.

Tufo di Grotta Oscura

Tufo semilitoide poroso di colore giallo proveniente dalle cave di Veio assai utilizzato a partire dal 396 a.C. quando la città venne conquistata.

Tufo dell’Aniene (Lapis Pallens) - Pietra Collatina

Tufo di colore rossastro di buona qualità proveniente dalle cave lungo l’Aniene, principalmente dislocate nei pressi della odierna Settecamini.
Pietra Collatina - Strabo (5.3.II)
Utilizzato nell’acquedotto Marcio per le pareti laterali dello speco (145 a.C.);

Peperino (Lapis Albanus)

Tufo di origine vulcanica (litoide) particolarmente duro di colore grigio con puntinature; proveniva dalle cave di Marino sui colli Albani, da cui è stato estratto sino al 1960; la pietra era estratta dal bordo esterno del cratere vulcanico che racchiude il lago di Castel Gandolfo, nel tratto che si trova tra Marino ed il lago stesso; l’estrazione fu interrotta quando venne costruita la strada.

Pietra Gabina (Lapis Gabinus)

Simile al peperino ma con una maggior quantità di scorie, estratta dalle cave di Gabii sulla Prenestina.

Pietra Sperone (Lapis Tusculanus)

Tufo giallastro dalle cave del Tuscolo sui Colli Albani, nei dintorni delle odierne Freascati e Grottaferrata.
Utilizzato nelle arcate dell’acquedotto Marcio (Fabretti - de aquis) e nelle arcate di raccordo dei tre anelli in travertino nel Colosseo.

Selce (Silex )

Pietra basaltica durissima estratta dalle cave sui colli Albani (colata di Capo di Bove, Cava dei Selci, nel comune di Marino, appena oltre il X miglio dell’Appia Antica) particolarmente utilizzata nella realizzazione dello strato superficiale (summa crusta) delle strade romane.
Presenta la particolarità di rompersi secondo superfici convesse, favorendo quindi la realizzazione di cubetti regolari stondati adatti alla pavimentazione stradale.
Frammentata in grosse schegge ed allettata in calce e pozzolana poteva essere utilizzata per realizzare resistentissime pareti per le cisterne d’acqua (rivestite internamente di cocciopesto per renderle impermeabili).

cisterna in malta e selce

Cisterna romana in malta e schegge di selce, utilizzata in epoca medioevale come solida base per una torretta di avvistamento (Parco degli Acquedotti)

Travertino (Lapis Tiburtinus)
Il colosseo

il Colosseo o Anfiteatro Flavio.
La struttura portante venne realizzata utilizzando tre anelli concentrici a tre, due ed un ordine di arcate in opera quadrata di travertino, con l’utilizzo di perni di ferro per ottenere una maggiore solidità; nella foto si vede l’anello centrale a due ordini di arcate e sulla destra la facciata esterna a tre ordini.

Pietra calcarea sedimentaria bianca, dalle calde tonalità, a volte bianchissima, a volte con venature color miele, a volte color beige con striature più scure, porosa, piuttosto fragile ma molto resistente in compressione; il travertino utilizzato dai romani proveniva in massima parte dalla cava del Barco situata in prossimità della Prenestina nella pianura sotto Tivoli in direzione di Roma (Strada del Barco - 00011 Bagni di Tivoli), da cui si estraeva una pietra di ottima qualità; in questa pagina alcune foto della cava del Barco.

L’intera zona montuosa posta al limite del vulcano dei colli Albani ed in vicinanza dei grossi depositi calcarei di antica formazione generati da un antico lago alluvionale oggi quasi completamente prosciugato e che era interessato da numerose sorgenti sulfuree è ricca di travertino, ed oggi esistono, tra Bagni di Tivoli e Guidonia, nelle vicinanze del lago della Regina, numerose cave di estrazione attive; in particolare la cava del Barco è inattiva, ma tutt’intorno a questa ve ne sono presenti numerose altre funzionanti, a costituire un continuum di cave di estrazione su un’area di 400 ettari.

Ci sono testimonianze dell’utilizzo di questa pietra da parte dei Romani già a partire dal III sec. a.C. (Templi dell’Acropoli Tiburtina nei pressi di Tivoli); nel II secolo a.C. veniva utilizzato a Roma come supporto per altri rivestimenti ed in opera quadrata; nel I secolo a.C. cominciò ad essere utilizzato come materiale nobile di rivestimento e si prese ad usarlo intensivamente negli edifici pubblici, nelle ville e nei monumenti.
Essendo una pietra che presenta una elevata porosità, non è adatto a dettagli minuti e scanalature come lo è il marmo, e quindi veniva utilizzato con una finitura più grossolana, puntando sull’effetto scenografico d’insieme dato dal suo impiego in modo massiccio; con Augusto e la dinastia Giulio-Claudia, a partire dalla metà del I secolo a.C., divenne materiale caratteristico e tratto distintivo dell’architettura di Roma e, unitamente all’amplissimo utilizzo degli archi a tutto sesto, un vero e proprio simbolo della città; nella prima metà del I sec. d.C. si diffuse uno stile "rustico" con un largo uso del "bugnato rustico" (un esempio è in Porta Maggiore).
In epoca Flavia, con la costruzione tra il 72 e l’80 d.C. del Colosseo, la cui struttura portante venne interamente realizzata in opera quadrata di travertino, si arriva alla massima rappresentazione dell’utilizzo di questo materiale presso i romani.

Marmo (Marmor)

I primi marmi importati dai romani furono:
il Portasanta (marmor chium dall’isola di Kyos);
il marmo imettico dal monte Himettus in Grecia (monte Matto), importato da Crassus (Lanciani, Ancient and Modern Rome); lievemente azzurrognolo era usato intensivamente nelle costruzioni Ateniesi e nelle sculture greche in tempi arcaici ma gli venne presto preferito il Pentelico;
il giallo antico (marmor numidicum dalla Numidia) importato la prima volta nell'87 a.C. per iniziativa di M. Emilio Lepido (nel 78 a.C. - Lanciani, Ancient and Modern Rome);
l’africano (marmor luculleum dalla Turchia) introdotto a Roma da L. Licinio Lucullo non prima del suo ritorno a Roma dall’Asia nell'80 a.C. e la sua elezione a edile nel 79 a.C..
Solo successivamente, approssimativamente tra il 70 ed il 50 a.C., venne scoperto e si cominciò ad utilizzare il bianco marmo di Luni (marmor lunensis), colonia romana sin dal II secolo a.C. posizionata appena sopra Carrara.
In seguito all’espansione dell’Impero Romano a partire dall’epoca di Augusto vennero utilizzati decine di altri pregiati marmi provenienti dai territori d’Oriente.
Dalla Grecia provenivano: il Verde Antico dalla Tessaglia, il Cipollino bianco a striature verdi da Karystos, il Pentelico bianco proveniente dal monte Pentelico nei pressi di Atene, il Serpentino porfido verde le cui cave erano nei pressi di Sparta.
Dall’Egitto dove il granito era già utilizzato da molti secoli dai faraoni, provenivano:
il marmor claudianum dal mons Claudianus, granito utilizzato ad esempio da Apollodoro da Damasco per le colonne del Pantheon e del foro di Traiano;

La parola marmor anticamente indicava la luce riflessa dalla superficie increspata del mare e Roma sotto il principato di Cesare Ottaviano Augusto divenne veramente luccicante di travertini, graniti e marmi variopinti:

Suetonius, De Vita Caesarum, Divus Augustus 28.3
Urbem neque pro maiestate imperii ornatam et inundationibus incendiisque obnoxiam excoluit adeo, ut iure sit gloriatus marmoream se relinquere, quam latericiam accepisset. Tutam vero, quantum provideri humana ratione potuit, etiam in posterum praestitit.


Svetonio, La vita dei Cesari, il Divino Augusto 28.3
Fino a questo tempo la città non era adornata come la grandiosità dell’impero richiedeva ed era esposta alle inondazioni (del Tevere) ed agli incendi; perché sia detto il giusto (Augusto) si poté vantare di averla trovata (costruita) di mattoni asciugati al sole e lasciata (costruita) di marmo; (egli) la rese realmente sicura, per quanto poté provvedere con la ragionevolezza umana, anche per preservarla ai posteri.


Importare marmi pregiati da ogni parte dell’impero si diffuse come una moda tra i nobili e ricchi romani e vi fu un fiorire di pavimenti in opus sectile, colonne, statue composte con marmi differenti incastonati tra loro; nel primo periodo augusteo a tale sfarzo solo taluni filosofi si opponevano; nel 18 a.C. Augusto promulgò la legge contro l'ostentazione del lusso nota come lex Iulia sumptuaria.

Ancora oggi possiamo ammirare numerosissimi esempi di questi marmi antichi riutilizzati per l’ornamento (pavimenti, pareti, colonne) delle chiese medioevali, rinascimentali e barocche di Roma.

Gli intonaci

L’intonaco ha una funzione protettiva della struttura muraria nei confronti degli agenti atmosferici, una funzione igienica in quanto la parete liscia consente una migliore rimozione della polvere e dello sporco ed una funzione prettamente estetica, di abbellimento del manufatto; quello che i romani usavano era in sostanza quello che oggi noi chiamiamo marmorino o stucco romano, o, mescolandovi terre colorate, stucco veneziano.

Lo strato di grassello e polvere di marmo opportunamente pressato e lisciato diviene lucido e compatto, assumendo alla vista ed al tatto un aspetto molto simile al marmo levigato.
Può essere rifinito a cera d’api per aumentarne la lucentezza e renderlo impermeabile all’acqua, pur rimanendo assolutamente traspirante.
Questo intonaco, già bello così, veniva spesso affrescato (è questo lo stesso fondo usato per gli affreschi rinascimentali) ed arricchito con stucchi.
Questo è un intonaco altamente traspirante e maggiormente ecocompatibile rispetto ai classici intonaci a base di calce - cemento (arriccio) e gesso - cemento (intonachino civile - lo strato bianco superficiale dell’intonacatura) che vengono utilizzati oggi.

Vitruvio nel De Architectura VII.III definisce la modalità di realizzazione dell’intonaco secondo una tecnica a più strati:
SI applica il rinzaffo, un sottile strato preparatorio di malta che deve risultare quanto più ruvido sia possibile e quando questo stia asciugando si passa a stendere almeno 3 strati di arenato (oggi chiamato arriccio); si stende il primo strato di malta, avendo cura di regolare la squadratura e le verticali delle mura incidendo e pareggiando l’intonaco prima che asciughi; quando il primo strato sia in fase di essiccazione si stenderanno in successione almeno altri due strati di malta; questa malta viene preparata con una parte di grassello di calce e due o tre parti di sabbia avendo cura di usare via via sabbia più fina e di diminuire lo spessore in ogni strato successivo riducendolo a circa la metà del precedente; lo spessore di ogni singolo strato poteva variare da mezzo pollice ad alcuni pollici; per migliorare l’adesione tra il primo ed il secondo strato l’intonaco appena steso poteva venire inciso con la cazzuola; nel primo strato venivano affogati pezzi di mattoni o di marmo disposti di piatto o scaglie di pietre per aumentarne la solidità e la compattezza; l’arenato è la parte più spessa dell’intonaco ed assolve alla funzione protettiva del muro ed a preparare un supporto perfettamente piano per la successiva intonacatura; successivamente, umido su umido, senza cioè attendere la completa essiccazione dello strato appena applicato, si stendono 3 strati di marmorato ottenuto utilizzando una parte di grassello e due o tre parti di polvere di marmo; la malta deve essere tale "che rimescolandola non si attacchi alla cazzuola ma venga via con facilità dal ferro"; l’ideale è mettere quanta più polvere di marmo sia possibile mantenedo però l’amalgama ben stendibile con la spatola; poca polvere di marmo faciliterà le crepe; troppa polvere di marmo impedirà di stendere adeguatamente la malta; gli strati successivi di marmorato, di alcuni millimetri di spessore, saranno via via più sottili e verrano lavorati e levigati con crescente energia; l’ultimo strato verrà quindi battuto a cazzuola e levigato col marmo.
Con tale procedura l’intonaco risulterà solido e durevole ed i colori risplenderanno maggiormente; in particolare dando la pittura sull’ultimo strato di stucco quando questo non risulti ancora asciutto, il colore resterà a lungo brillante ed anche lavando il muro i colori non si dilaveranno; infatti la calce "privata della sua umidità nelle fornaci ed essendo divenuta porosa ed asciutta, si impregna rapidamente di qualunque sostanza con cui venga a contatto... e quando si secca l’impasto diviene un blocco omogeneo".
"Quando si utilizzi un solo strato di sabbia ed un solo strato di polvere di marmo, questo si crepa facilmente a causa della sua finezza".
"Lo stucco quindi, quando ben eseguito, non perde la levigatezza sporcandosi e non perde il colore quando venga lavato, a meno che non sia stato dato con disattenzione o che il colore sia stato steso essendo lo stucco già asciutto"
.

L’Arco

L’arco fu una delle conquiste tecniche di maggiore importanza per i romani, in quanto è l’elemento architettonico essenziale per realizzare ponti, acquedotti, porte, archi di trionfo, teatri, anfiteatri e molte altre strutture ed infrastrutture pubbliche.
L’uso dell’arco consente di realizzare porte e finestre molto più ampie di quelle solitamente ottenute con un monolite (trilite) utilizzato come architrave; si tenga infatti presente che le pietre hanno una grossa resistenza in compressione mentre sono molto meno resistenti in estensione; l’arco si sostiene utilizzando solo forze di pressione fra i massi, mentre un monolite posto orizzontalmente tra due pilastri è soggetto a forze sia compressive (l’appoggio sulle colonne poste agli estremi del blocco) che estensive (il peso stesso del monolite e della struttura sovrastante che, pensando in maniera schematica ad un punto al centro del blocco, esercita una forza (forza peso) verso il basso la quale, non esistendo alcun sostegno al di sotto, si manifesta come una forza di natura estensiva che tende a spaccare il blocco e che deve venir bilanciata dalla capacità di coesione del masso stesso); quindi l’arco è in grado di sostenere pesi notevolmente superiori rispetto ad un architrave monolitico e può realizzare varchi molto più ampi; si consideri anche la maggiore difficoltà di realizzazione e trasporto data da un grosso monolite rispetto ai pur grossi blocchi di tufo usati come conci.

Introduzione dell’arco

I primi esempi documentati di sistemi voltati risalgono al IV secolo a.C. nel mondo greco ed analogamente in ambito etrusco al IV e III secolo a.C.; nella tecnica costruttiva romana i sistemi voltati in elevato furono utilizzati almeno a partire dal III secolo a.C., ma esistevano già da prima, come ad esempio ci testimonia Seneca:

Seneca - epistulae morales ad lucilium [XIV 90.32]

‘Democritus’ inquit [Poseidonius] ‘invenisse dicitur fornicem, ut lapidum curvatura paulatim inclinatorum medio saxo alligaretur.’ Hoc dicam falsum esse; necesse est enim ante Democritum et pontes et portas fuisse, quarum fere summa curvantur.

‘Si dice che Democrito inventò l’arco’ afferma Posidonio ‘in cui la curvatura delle pietre che gradualmente si inclinano è tenuta ferma dal masso mediano.’ Io affermo che questo sia falso; che in realtà già prima di Democrito fossero necessari ponti e porte, i quali in genere sono curvi alla sommità.

Democrito fu un filosofo greco vissuto tra V e IV secolo a.C.; esistono ritrovamenti di sistemi voltati riferibili al IV secolo, generalmente utilizzati in infrastrutture interrate quali cloache e cisterne, per le quali si presentò la necessità di sostituire le coperture in lastroni piani di pietra con qualcosa che consentisse dimensioni maggiori della superficie coperta; il problema delle spinte laterali nei sistemi voltati interrati era evidentemente annullato dal terreno stesso, cosa che ne semplificava la costruzione.
Alla fine del VI secolo a.C., l’epoca dei Re Tarquinii, risale la prima realizzazione della cloaca massima e nel Foro Romano sono state trovate tracce di copertura a falsa volta della cloaca risalenti alla realizzazione originaria.
Livio in Ab Urbe Condita I.56 scrive che la Cloaca Maxima costruita sotto il re Tarquinio era sotterranea.
Plinio il Vecchio in XXXVI 109 scrive:

amplitudinem cavis eam fecisse proditur, ut vehem faeni large onustam transmitteret.

Si dice che (Tarquinio Prisco) costruì questa cavità (della cloaca massima) sufficientemente ampia (da poter consentire) che un carro carico di fieno potesse percorrerla.

Dionisio di Alicarnasso in Antichità Romane [IV 44] descrive la realizzazione da parte dei plebei delle cloache quando regnava Tarquinio Prisco, e parla di un qualche tipo di copertura voltata.

Un precursore dell’arco fu realizzato con filari di massi aggettanti, in cui i blocchi sovrapposti erano disposti via via in posizione più sporgente fino ad arrivare a congiungersi, ottenendo una falsa volta; poteva talvolta essere utilizzato alla sommità un masso centrale a forma trapezoidale, usato quindi con la stessa funzione e modalità del concio di chiave, se pure ancora non si possa propriamente parlare di volta, essendo gli altri massi semplicemente sovrapposti su piani paralleli e non incastrati secondo piani disposti a raggiera come avviene per i conci; tale tecnica era utilizzata anche nelle coperture di alcune tombe etrusche a camera intorno al VI secolo a.C..

I romani utlizzarono l’arco principalmente nella forma a tutto sesto (perfettamente semicircolare), la modalità più semplice ed economica per realizzarlo; rispetto alle culture che precedentemente lo utilizzarono ne fecero anche l’elemento base per realizzare le strutture portanti degli edifici di grandi dimensioni; l’esempio più famoso è rappresentato dal colosseo o anfiteatro flavio; probabilmente tra i primi grandi edifici realizzati in opera quadrata di travertino o tufo o peperino e struttura portante in archi, sono il teatro di Pompeo in Campo Marzio, voluto da Pompeo Magno ed inaugurato nel 55 a.C., l’anfiteatro di Statilio Tauro in Campo Marzio aperto nel 29 a.C., il teatro di Marcello che ancora oggi possiamo vedere sul lungotevere e che risale al 17 a.C..

L’arco viene realizzato utilizzando i conci, pietre tagliate a forma trapezoidale (anche detti per questo cunei), o semplici mattoni; i conci formano un elemento architettonico curvo che va a poggiare sui piedritti realizzando così una struttura architettonica.
Quando i romani affinarono le tecniche costruttive in opus caementicium vennero costruiti archi in opera laterizia, sicuramente più economici e veloci da realizzare; da un punto di vista fisico i discorsi sulle forze in gioco rimangono analoghi semplicemente riportando le considerazioni che si fanno su di un concio ad un cubetto infinitesimale di cementizio (considerandone poi l’integrale sull’intero volume dell’arco).
Grazie ai principi della dinamica (il principio di azione e reazione ed il principio Forza = massa per accelerazione) ed utilizzando una rappresentazione vettoriale delle forze in gioco si può capire come l’arco riesca a sorreggersi ed a sostenere un peso trasferendo lo sforzo via via dall’elemento centrale, il concio di chiave, ai conci laterali; alla fine il peso viene scaricato parte verticalmente a terra attraverso il piedritto che lo sorregge e parte orizzontalmente contro la spalletta di sostegno.
Nelle arcuazioni di un acquedotto lo sforzo orizzontale esercitato dall’arco viene esattamente bilanciato dallo stesso sforzo in direzione contraria provocato dall’arco contiguo; questo implica anche una certa complicazione realizzativa in quanto occorre prevedere un sostegno laterale del piedritto via via che si costruisce un nuovo arco, là dove evidentemente ancora non esiste quello successivo che possa sostenere la spinta orizzontale.
Nel caso si ponga in opera un singolo arco si dovrà prevedere una adeguata struttura laterale di sostegno per lo sforzo orizzontale.
Oltre al rinforzo della spalletta laterale esistono altre tecniche, non utilizzate dai romani, come quella delle guglie o pinnacoli che esercitano una spinta verso il basso in corrispondenza dei piedritti in modo da compensare la spinta laterale (orizzontale) con un maggiore attrito fra i massi del piedritto provocato dall’aumento di peso, oppure l’utilizzo di strutture di raccordo tra i due piedritti dell’arco in corrispondenza della imposta (la superfice finale del piedritto su cui poggia il primo concio dell’arco) (archi a spinta eliminata con catena), o ancora l’uso degli archi rampanti.
Una volta risolto il problema delle spinte laterali, l’arco viene posto in opera utilizzando le cèntine; queste sono realizzate creando due strutture gemelle in travi di legno che vadano a sagomare fedelmente la linea dell’intradosso (la superficie inferiore dell’arco), utilizzando travi via via più piccole fino a creare una spezzata che approssimi quanto basta l’ideale circonferenza dell’intradosso; le due strutture vengono quindi collegate tra loro da tavolette di legno che vanno a sagomare la superficie dell’intradosso; sulle centine vengono quindi poggiati i conci dell’arco.
Ovviamente un problema fondamentale da risolvere è dove poggiare le centine; nei rivestimenti in mattoni degli acquedotti realizzati nelle successive opere di rinforzo le centine venivano poggiate su degli speroni di travertino predisposti appena sotto il piano d’imposta (la base dell’arco); negli archi degli acquedotti in blocchi di pietra quali il Claudio ed il Marcio normalmente il piano d’imposta risulta sporgente rispetto alla base dell’arco, per cui ritengo venissero poggiate direttamente sul piano d’imposta.
Un altro problema da risolvere è, una volta che l’arco sia completato, come rimuovere la centina bloccata dal peso della struttura senza distruggerla onde poterla riutilizzare; un metodo può essere quello di inserire nel sistema di sostegno della centina due cunei di legno sovrapposti in direzioni opposte in modo da realizzare un parallelepipedo; i cunei vengono bloccati per non farli scivolare; al momento del disarmo questi vengono fatti scivolare l’uno sull’altro aiutandosi con una mazza e liberando così la centina dal peso dell’arco.
Occorre comunque effettuare il disarmo con attenzione ed in modo per quanto possibile graduale e simmetrico, in quanto togliendo la centina i conci, che poggiano ancora in buona parte sulla centina, e quindi verticalmente sul piedritto, si assesteranno definitivamente andando ad esercitare completamente la spinta laterale sui piedritti.

Le tipologie costruttive delle coperture a volta

La volta è l’elemento architettonico di copertura degli edifici basato sull’utilizzo dell’arco.
Normalmente non era realizzata in pietre o mattoni cuneiformi ma semplicemente utilizzando una colata di calcestruzzo a realizzare gli elementi strutturali; in ogni caso la natura degli sforzi laterali cui è sottoposta sono analoghi sia che sia realizzata in calcestruzzo sia che sia realizzata in muratura.
SI ritrovano volte a botte già in Egitto ed in Mesopotamia, mentre la cultura Greca non utilizzò la volta preferendole l’uso di coperture piane; nell’antica Roma si sviluppò già in epoca Repubblicana, ma fu solo nel periodo imperiale, grazie al massiccio impiego del calcestruzzo romano, che si sarebbe notevolmente diffusa nelle sue molteplici forme prima difficilmente realizzabili tramite l’utilizzo di conci di tufo.

volta a botte

È il più semplice tipo di copertura derivata dall’arco e ottenuta mediante una sua traslazione secondo una generatrice lineare perpendicolare all’arco; veniva utilizzata per coprire spazi rettangolari e lunghi camminamenti; il peso si scarica sui due muri di appoggio degli archi.
Un esempio e il sistema fognario (la cloaca massima) realizzata in conci di tufo.

La volta a botte si può dividere in 4 parti utilizzando due piani diagonali: due unghie e due spicchi; da queste superfici si ottengono le volte composte a crociera e a padiglione; a parte eventuali considerazioni estetiche strutturalmente in tali tipologie architettoniche composte il peso del tetto si scarica principalmente sulle costole della volta e da queste sulle colonne di sostegno mentre nella volta a botte o anche in quella a cupola il peso si distribuisce uniformemente su tutto il muro.

volta a cupola

Geometricamente ottenuta dalla rotazione dell’arco intorno all’asse passante per il suo centro.
L’esempio più famoso è la enorme cupola del Pantheon, l’unico monumento romano miracolosamente giunto sino a noi quasi intatto.
Nel caso l’ambiente coperto dalla cupola sia a pianta quadrata o poligonale occorrerà unire la cupola con le mura di sostegno utilizzando delle superfici curve di raccordo chiamate pennacchi (pennacchio cilindrico, conico o sferico).

volta a crociera

Geometricamente la sua superfice è ottenuta dall’unione di 4 unghie di una volta a botte; si ottiene da due archi incrociati ad angolo retto, che portano ad una suddivisione del soffitto in quattro parti simmetriche, ognuna ricoperta utilizzando un’unghia; gli spigoli di intersezione tra volta e pareti di sostegno disegnano degli archi; il peso si scarica sui piedritti agli angoli del locale.

volta a padiglione

Geometricamente si ottiene dall’unione di 4 spicchi di una volta a botte; è analoga alla volta a crociera dove però si utilizzano 4 spicchi e non 4 unghie; lo spigolo di intersezione tra volta e pareti è tutto contenuto in un piano orizzontale.

volta a vela

Si tratta in sostanza di una volta a cupola innestata su di una base quadrata; non vengono utilizzate superfici di raccordo e la linea di intersezione tra il muro di sostegno e la cupola è un arco (mentre nella volta a cupola è una linea orizzontale).
È utilizzata piuttosto raramente.

Le Strade

Tecnica realizzativa delle strade

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Pagina modificata il
30 Marzo 2012