Marziale (ed altri) - gli epigrammi proibiti
Giustificazione degli epigrammi profani
I.4 La mia pagina è licenziosa, la vita giusta
I.35 Nulla è più turpe d'un Priapo senza palle
III.69 Un casto poeta
VII.25 Un poeta demente
X.4 La mia pagina ha il sapore dell'uomo
XI.20 La semplicità del parlare romano
Epigrammi profani
I.46 Il frettoloso Edilo in romanesco
I.58 Uno schiavetto troppo caro
I.65 Ci son fichi e fichi
I.77 Il pallore di Carino
I.90 La lesbica Bassa
I.92 Quel morto di fame di Mamuriano
I.96 Materno e lo scazonte
II.28 Cosa sei, Sestillo? in romanesco
II.33 Perché non ti bacio, Fileni?
II.45 Glytto
II.47 Il marito della famosa zoccola
II.49 Telesina
II.50 Lesbia
II.51 Il vorace culo di Hyllo
II.54 Una moglie perspicace
II.61 Il calunniatore
II.62 Labieno
II.70 Il bagno di Cotilo
II.89 I vizi di Gauro
III.26 La moglie di Candido
III.65 Il profumo dei tuoi baci
III.71 I passatempi di Nevolo
III.72 La sciocca Saufeia
III.73 Phoebo
III.75 A Luperco non si drizza
III.79 Sertorio nulla termina
III.87 Il pudore di Chione
III.88 Fratelli gemelli
III.93 L'orrida Vetustilla
III.96 Quel fanfarone di Gargilio
IV.4 La puzza di Bassa
IV.7 Ieri era un ragazzo, oggi un uomo
IV.43 Coracino leccafica
IV.48 Il pianto di Papilo
VI.7 Adultera per legge
VI.23 Le pretese di Lesbia in romanesco
VI.36 Le protuberanze di Papilo
VI.56 Dammi retta, Caridemo, depilati
VI.73 Il Priapo a protezione del campo
VII.14 Ad Aulo: qual disgrazia colse la nostra fanciulla
VII.18 I rumori di Galla
VII.30 Le preferenze di Celia
VII.58 Non si trovan più i maschi d'una volta, Galla mia
VII.71 Una famiglia particolare
VII.75 Vuoi dare e non dare
VIII.54 Oh, Catulla, se tu fossi meno troia
IX.37 A Galla
IX.41 Le seghe di Pontico
IX.57 Il logoro culo di Edilo
IX.67 La ragazza perversa
IX.69 Indovina indovinello
X.55 La mano di Marullain romanesco
X.63 Epitaffio d'una nobil Matrona
X.67 Epitaffio d'una pruriginosa vecchietta
X.81 Fillide
X.90 La fica stagionata di Ligeia
XI.19 Errori del cazzo in romanesco
XI.21 La fica sfranta di Lidia
XI.22 Usa la parte che ti spetta
XI.25 Lingua, stà attenta
XI.28 Quel matto di Nasica
XI.29 Solleticami così, Fillio
XI.30 Avvocati e poeti
XI.43 La moglie in romanesco
XI.46 Consiglio per il vecchio Mevio
XI.47 Per non scopare
XI.60 Phlogis e Chione
XI.63 Perché tanti ragazzetti, Filomuso?
XI.71 Un vecchio marito comprensivo
XI.77 Vacerra seduto sulla latrina
XI.99 Quella culona di Lesbia
XII.35 La schiettezza di Callistrato
XII.75 Su Politimo, Ipno, Secondo, Dindimo, Amfione
XII.77 Le preghiere a Giove di Etone
Carmen Priapea 7 Il Priapo bleso
Carmen Priapea 11 Minaccia di un Priapo
Carmen Priapea 13 La punizione del Priapo
Carmen Priapea 17 Il guardiano molesto
Carmen Priapea 22 La punizione del Priapo
Carmen Priapea 29 Invocazioni
Carmen Priapea 31 Minaccia di un Priapo
Carmen Priapea 33 I bei tempi andati
Carmen Priapea 41 La dedica
Carmen Priapea 54 Rebus
Carmen Priapea 56 Il dito medio
Carmen Priapea 63 Fatiche di Priapo
Carmen Priapea 64 Il molle desiderio d'espiazione
Carmen Priapea 69 Valutazioni
Carmen Priapea 95, Q. Orazio Flacco, Sermo I.VIII Sagana e Canidia
Plauto - Fragmenta: Nervolaria Scrattae, scrupedae, strictivillae, sordidae
Uno dei tanti temi toccati da Marco Valerio Marziale nei suoi epigrammi fu quello dei contenuti profani, riguardanti tematiche sessuali normalmente considerate oscene o volgari o comunque inappropriate.
Una lista essenziale delle parole latine proibite potete trovarla in lingua inglese su questa pagina di wikipedia: Latin profanity; è facile vedere come il vocabolario latino sia molto più dettagliato che non il vocabolario italiano.
L’uso dei termini osceni rientrava in un lessico parlato estremamente informale, il latino volgare che fu una lingua largamente sessuale e scatologica e che si andava distinguendo dal latino scritto classico e in genere se ne trova traccia solo in pochi scritti, solitamente di satira
Nel latino classico i termini osceni, generalmente riferiti come obscaena o improba, potevano esser utilizzati raramente ed esclusivamente nelle opere satiriche.
Personaggi degli epigrammi
Marziale scrisse centinaia di epigrammi su tematiche oscene, in genere riferendosi alle attitudini e abitudini sessuali di questo o quel popolano o a loro vizi o difetti fisici; alcuni personaggi furono il soggetto di numerosi epigrammi, come ad esempio Fileni, Galla o Luperco:
Fileni era descritta come mascolina, con un sol occhio, brutta e maleodorante; è il soggetto degli epigrammi II.33, IV.65, VII.67, VII.70, IX.29 (epicedio per Fileni), IX.40, IX.62, X.22, XII.22.
Galla è il soggetto degli epigrammi II.25, II.34, III.51, III.54, III.90, IV.38, IV.58, VII.18, VII.58, IX.37, IX.78, forse riferendosi a più di una donna con lo stesso nome, o forse descrivendola in modi differenti man mano che passavano gli anni; nei primi liber è senz'altro desiderata da Marziale; in VII.18 è desiderata pur se con qualche problematica; in VII.58 Galla è alle prese con numerosi mariti; in IX.37 è descritta come bruttissima, in IX.78 ha seppellito sette mariti e trova l'ottavo.
Omosessualità nella cultura romana
Un tema largamente trattato da Marziale era quello dell’omosessualità, molto diffusa a Roma; il paganesimo greco romano considerava l'amore omosessuale in modo molto diverso da come sarebbe stato considerato successivamente dalle religioni monoteiste nate dal giudaismo.
In epoca repubblicana precedente alla conquista della Grecia l'amore omosessuale era poco praticato e generalmente deprecato e condannato.
Nell'antica Grecia era diffusa la relazione tra un maschio adulto (erastes - amante) ed un maschio adolescente (eromenos - amato); la legge stabiliva che il giovane eromenos dovesse avere almeno dodici anni e normalmente poteva arrivare ad avere 21 anni, quando raggiungeva la maggiore età secondo la legge ateniese; Platone giustifica tale rapporto con un fine educativo specificando che tra i due dovesse stabilirsi affetto e tenerezza e non necessariamente sesso.
Successivamente alla caduta di Cartagine e di Corinto nel II secolo a.C. la cultura e la mitologia greche furono completamente assorbite dai romani, ed anche la relazione omosessuale, chiamata dai romani il vizio greco, prese a diffondersi massicciamente nella società romana.
Quelle nuove stranezze e perversioni sessuali cui un sempre maggior numero di romani si abbandonava portarono a promulgare alcune leggi con l'intento di estirpare alcuni comportamenti ritenuti immorali.
La Lex Scatinia risalente al 149 a.C. e di cui ci sono giunte le sole citazioni tramite numerosi scrittori classici quali Cicerone, Svetonio, Giovenale ed altri, cercava di porre un freno al dilagare di pratiche sessuali considerate degenerate; nel rapporto omosessuale tra un adulto ed un puer libero (non uno schiavo) condannava l'adulto con una sanzione pecuniaria, mentre nel rapporto tra due uomini liberi condannava con sanzione pecuniaria colui che assumeva il ruolo passivo; se il passivo era uno schiavo non sussisteva alcuna sanzione in quanto era suo preciso dovere assecondare ogni desiderio del padrone.
Questa legge cercava quindi di porre un freno (probabilmente con scarsa efficacia) al fenomeno degli stupri dei pueri praetextati, i figli dei cittadini liberi, che fino all'età di 16-17 anni erano soliti indossare la toga praetexta, bianca ornata sul bordo di rosso porpora, la stessa usata dagli adulti più potenti e ricchi.
Nella cultura romana di epoca tardo repubblicana e alto imperiale le relazioni omosessuali con i propri schiavi o con dei liberti, solitamente di giovane età, erano generalmente accettate alla sola condizione che il padrone mantenesse il ruolo attivo e che lo schiavo o il liberto fosse il partner passivo; il rapporto sessuale nel ruolo attivo era visto come una esaltazione della virilità e del potere della gens romana sugli altri popoli, che, assoggettati alla schiavitù, venivano dominati anche sessualmente.
Solitamente il rapporto avveniva tra il padrone ed un giovane schiavo maschio adolescente, di età compresa tra i dodici ed i venti anni; Marziale descrive tali usanze pederastiche in numerosi epigrammi e in alcuni sembra lui stesso apprezzare tali pratiche sessuali (III.65, XII.75), per quanto egli spesso parli in prima persona semplicemente interpretando il comune sentire popolare.
In qualche modo per i romani tale tipo di comportamento era un fatto naturale o quantomeno tollerato; i giovani ricettivi, spesso costretti a tali relazioni, non subivano giudizi negativi e l'atteggiamento morale nei confronti del padrone che abusava dei giovani schiavi era solitamente tollerante; tuttavia essendo tale pratica assai diffusa il poeta era comunque anche attento a non urtare coi suoi versi la suscettibilità di qualche potente e quindi Marziale si mostra ambivalente nel giudizio su tali usanze; in XI.22 sembra condannarle se pure afferma anche, in modo scherzoso nella fulmen in clausola, che la natura ha voluto il maschio diviso in due parti: una generata per il piacere delle fanciulle (la parte fallica) ed una per il piacere degli uomini (la parte anale); comunque questo è indicativo, se non delle reali tendenze di Marziale, di quale fosse il comune sentire del lettore.
Anche nella relazione omosessuale tra uomini liberi la morale romana distingueva innanzitutto tra ruolo insertivo e ruolo ricettivo (in italiano alternativamente alle dizioni attivo - passivo si possono usare i termini insertivo - ricettivo, forse troppo tecnicisti ma che chiariscono meglio l'essenza dei due ruoli evitando anche l'uso del termine passivo che può avere una valenza negativa): mentre l’omosessualità col ruolo attivo era generalmente accettata in quanto il ruolo attivo-insertivo era considerato maschile e veniva comunque esaltato restando irrilevante se l’atto avveniva con un partner maschile o femminile, l’omosessuale adulto ricettivo veniva ridicolizzato in quanto il ruolo passivo era quello della sottomissione, non virile, causa del decadimento della società romana e quindi deprecabile rappresentando un ruolo contrario all'ideologia patriarcale virile e dominatrice della società romana, per cui gli effeminati e gli uomini che praticavano rapporti passivi erano disprezzati e derisi.
I romani svilupparono una società fortemente maschilista e sessista, la cui etica politica era basata sulla conquista, sulla guerra, sul dominio e sulla schiavitù; il sesso e lo stesso amore, dalle divinità greco romane all'ultimo dei cittadini romani, rifletteva tale cultura predatoria che portava a considerare lecito e come un fatto naturale il dominio sessuale e lo stupro.
Piuttosto che definire le generiche categorie omo sessuale ed etero sessuale si distingueva il ruolo svolto: rifacendosi alla fondamentale dicotomia della società romana che distingueva sostanzialmente tra cittadini romani maschi, gli uomini liberi, e gli altri, i vinti divenuti schiavi e le donne, la morale voleva che l'uomo libero praticasse solo ruoli attivi, mentre gli schiavi, le donne e i degenerati praticavano un ruolo passivo; non esistono infatti le parole latine atte ad individuare le generiche categorie omosessuale, eterosessuale e bisessuale, mentre esistono termini più specifici che descrivono le pratiche sessuali facendo particolare attenzione al ruolo svolto, quali ad esempio cinaedus (giovane effeminato ricettivo) o pathicus (adulto passivo) o irrumare (effettuare attivamente un coito orale) o pedicare (penetrare analmente).
Marziale su questo aspetto della cultura romana si mostra perfettamente allineato con i sentimenti popolari dominanti, di cui i suoi epigrammi sono uno specchio, e solitamente ridicolizza le pratiche omosessuali ricettive compiute da adulti e presenta come un fatto naturale quelle insertive praticate con le donne ed anche quelle praticate nei confronti dei ragazzi. Nel rapporto tra due adulti solitamente Marziale non si sofferma mai sul ruolo insertivo, mentre si concentra sempre nel ridicolizzare il ruolo ricettivo.
Omosessualità nella Mitologia
L'amore fra individui dello stesso sesso era fortemente radicato all'interno della mitologia greco romana, in cui spesso sono raffigurati rapporti pederastici tra divinità di sesso maschile (sempre nel ruolo attivo) e giovani mortali di sesso maschile (nel ruolo passivo); è probabile che in epoca preistorica tali rapporti fossero la rappresentazione simbolica di riti di iniziazione rappresentanti il passaggio dalla adolescenza alla età adulta, riti che venivano compiuti tramite la trasmissione del seme; in epoca romana si persero tali simbolismi e rimasero gli amori carnali delle divinità come fini a sè stessi; successivamente correnti filosofiche quali il neoplatonismo puntarono a reinterpretare tali relazioni omosessuali delle divinità in chiave mistica.
Personaggi della mitologia greco romana che avevano relazioni omosessuali: Achille e Patroclo, Achille e Antiloco, Achille e Troilo, Apollo e Ciparisso, Apollo e Giacinto, Cicno e Fetonte, Cidone e Clizio, Crisippo e Laio, Crisippo e Pelope, Diana e Callisto, Ercole e Abdero, Ercole e Ila, Ercole e Iolao, Eurialo e Niso, Ifi e Iante, Ipno ed Endimione, Narciso ed Aminia, Orfeo e Calaide, Pan e Dafni, Piritoo e Teseo, Zeus e Ganimede.
Il solo mito greco romano che descriva un rapporto lesbico tra una divinità ed un umano entrambi di sesso femminile è quello di Diana e Callisto; rimase tuttavia contaminato dalla visione patriarcale della cultura greco romana, per cui fu Zeus che si trasformò in Diana per ingannare e sedurre una donna.
Personaggi famosi
I rapporti omosessuali di Giulio Cesare sono testimoniati da Cicerone, Plutarco e Svetonio.
Licinio Calvo (Caius Licinius Macer Calvus) (82 a.C. - 47 a.C.), grande amico di Catullo, oratore e poeta delle cui opere restano pochi frammenti, scrisse versi deridendo Giulio Cesare per le sue tresche omosessuali col re di Bitinia Nicomede ed altri riferiti alle tendenze omosessuali di Pompeo Magno.
Catullo scrive del suo desiderio per il giovane Giovenzio (carmi 15(?), 21(?), 24, 48, 81, 99) ed anche per altri.
È noto che Mecenate (68 a.C. - 8 a.C.) prediligesse l'amore con uomini; quello per il giovane liberto attore Batillo (Bathyllus) è ampiamente documentato (Tacito, Annales I.54; Cassio Dione, Storia Romana V.17; Orazio, in Epodon XIV.10-15 rende un omaggio a Mecenate e Batillo).
L'imperatore Nerone (vedi da giovane, vedi), tipo tanto feroce quanto originale, ebbe diverse mogli ed amanti: Ottavia, Poppea (per sposare la quale uccise la madre Agrippina) (Tacito, Annales XIV; Cassio Dione, Istoria Romana LXII), la liberta Atte, Statilia Messalina, violò la vestale Rubria ed anche fece castrare il giovane Sporo (Sporus), esibendolo poi come moglie nel 67 (Svetonio, de vita Caesarum, Nero 28; Cassio Dione, Storia Romana LXII.28, LXIII.12-13); Sporo morì suicida a meno di vent'anni; inoltre l'imperatore durante un sontuoso banchetto orgiastico organizzato da Tigellino per le feste dei Saturnalia nel 64 si sposò con un liberto greco, Pitagora (Pythagoras), che ne divenne il marito, mentre Nerone prese il ruolo di moglie (Tacito, Annales XV.37; Cassio Dione); per Svetonio, che probabilmente sbagliava nome, Nero fu invece la moglie di Doryphorus (Svetonio, de vita Caesarum, Nero 29) .
Tali autori erano chiaramente piuttosto avversi alla figura di Nerone, condannato alla damnatio memoriae.
Svetonio: la vita dei Cesari, Nerone, 28 - Sporo:
“(Nerone) oltre ad abusare di giovani liberti ed a sedurre donne maritate, corruppe la vergine vestale Rubria. Fece la sua sposa della liberta Atta, dopo aver corrotto dei consoli per giurare e spergiurare che lei nacque nobile. Fece tagliare i testicoli al giovane Sporo e tentò di far di lui una donna, ed egli vi si maritò con tutte le usuali cerimonie, includendo una dote ed un velo nuziale, lo condusse nella sua casa assistito da una gran folla e lo trattò come sua moglie. Ed è ancora attuale la spiritosa burla che qualcuno pensò, secondo la quale sarebbe stato meglio per il mondo se Domiziano, il padre di Nerone, avesse avuto un tal tipo di moglie.
Questo Sporo, vistosamente abbigliato come una imperatrice, prese a condurlo con sé nei tribunali e nei mercati in Grecia, e più tardi a Roma nella strada delle Immagini, baciandolo amorevolmente di tanto in tanto. Che egli desiderasse perfino avere illecite relazioni con la sua stessa madre e che fu trattenuto dal farlo dai suoi nemici, i quali temevano che un tale fatto potesse dare alla impudente ed insolente donna troppo grande influenza, fu notorio, specie dopo che egli aggiunse alle sue concubine una cortigiana che fu detta esser molto simile ad Agrippina. Anche prima di ciò, come dicono, ogni volta che montava in una lettiga con la madre, egli aveva con lei incestuose relazioni, provate dalle macchie sulle sue vesti (di Nerone).”
Svetonio: la vita dei Cesari, Nerone, 29 - Doriforo:
“Egli prostituì a tal punto la sua castità che dopo aver insozzato quasi ogni parte del suo corpo, da ultimo escogitò un tipo di gioco, in cui, ricoperto dalla pelle di qualche animale selvaggio, veniva fatto uscire da una gabbia e attaccava (a morsi) le parti intime di uomini e donne, legati a dei pali, e quando lui aveva saziato la sua folle lussuria, veniva (teatralmente) posseduto dal suo liberto Doriforo; egli era stato anche maritato a quest'uomo nello stesso modo in cui lui stesso si maritò a Sporo, mettendosi così ad imitare le grida ed i lamenti di una vergine che venga deflorata. Ho udito da alcuni uomini che era sua ferma convinzione che nessun uomo fosse casto e puro in ogni parte del suo corpo, ma che la maggior parte di essi nascondesse i propri vizi e furbescamente li copriva con un velo; e che quindi egli perdonasse ogni altra mancanza a coloro i quali gli avessero confessato le loro indecenze.”
Tacito: Annales, XV.37 - Pitagora ed il banchetto di Tigellino
“Nerone, per ottenere il riconoscimento che lui amasse Roma sopra ogni altra cosa, preparava banchetti nei luoghi pubblici ed usava l'intera città come se fosse la sua casa privata. Di tali intrattenimenti il più famoso per notorietà e dissolutezza fu quello organizzato da Tigellino, che descriverò brevemente, in modo che non abbia ancora ed ancora a narrare di simili stravaganze. Egli fece realizzare sullo stagno di Agrippa una grossa zattera, su cui portò gli ospiti, che era fatta muovere trainata da altre barche. Tali barche brillavano d'oro e d'avorio; gli equipaggi si distinguevano per l'età e la dissolutezza. Uccelli e bestie erano stati portati da remoti paesi, e mostri di mare fin dagli oceani. Sulle rive del lago erano stati organizzati dei bordelli affollati di nobili signore, e sulla riva opposta si vedevano prostitute interamente nude che facevano movimenti e gesti osceni. Al giungere dell'oscurità tutto il boschetto adiacente e le case che lo circondavano risuonavano di canti nello sfavillio delle luci. Nerone inquinò sé stesso oltre ogni legge ed ogni indulgente immoralità e non omise ogni singolo abominio che potesse accrescere la sua depravazione, fino ad arrivare qualche giorno dopo a maritare sé stesso ad uno di quell'osceno branco, di nome Pitagora, con tutte le cerimonie di un normale matrimonio. All'imperatore fu messo il velo nuziale e furono convocate persone come testimoni augurali della cerimonia; il dono nuziale, il giaciglio e le torce nuziali ed in poche parole ogni cosa, fu interamente visibile, anche ciò che la donna unita in matrimonio nasconde nell'oscurità.”
L'imperatore Domiziano (vedi), che regnava quando Marziale era a Roma, amò l'eunuco Earino (Cassio Dione e altri); non è probabilmente vero che ebbe un ruolo passivo con Nerva (Svetonio); Domiziano, lodato da Marziale (IX.5, IX.7), proibì la castrazione, probabilmente spinto a questo dallo stesso Earino; Marziale dedicò ad Earino alcuni epigrammi (IX.11, IX.13, IX.16, IX.17, IX.36) ovviamente elogiativi, essendo il prediletto dell'Imperatore.
L'imperatore Adriano (vedi) aveva come amante preferito il giovane schiavo della Bitinia Antinoo(vedi, vedi, vedi); alla sua morte lo divinizzò costruendogli un tempio e istituendo un nuovo culto in suo onore e per lui fece anche realizzare ed erigere l'obelisco del Pincio a Roma e quello di Benevento.
Erode Attico (vedi) (101 d.C. - 177 d.C.) fu un uomo ricchissimo nato in Grecia, console, amico dell'imperatore Adriano e precettore di Marco Aurelio e Lucio Vero, figli di Antonino Pio; a lui si deve la realizzazione della villa sull'Appia di cui vediamo oggi i ruderi al Parco della Caffarella; sono noti i suoi amori per almeno tre giovani; in particolare per il suo ultimo, Pollùce (vedi, vedi, alla di lui morte, eresse in suo onore numerose statue e monumenti, come anche fece nello stesso periodo storico l'imperatore Adriano per Antinoo.
Eliogabalo (vedi)(203 - 222), imperatore dal 218 alla morte, appartenenente alla dinastia dei Severi, sposò cinque donne ma la relazione più stabile fu con uno schiavo, Ierocle un auriga biondo della Caria al quale l'imperatore si riferiva chiamandolo mio marito: "sono deliziato di esser chiamato la padrona, la moglie e la regina di Ierocle"; lo stesso Cassio Dione, suo contemporaneo, riferisce che si depilasse, si truccasse gli occhi e si prostituisse; oltre Ierocle è anche citato un amante, Zotico, sessualmente molto ben dotato, ma, fatto drogare da Ierocle che lo temeva come rivale, non soddisfò l'imperatore e fu immediatamente allontanato dall'Italia.
Eliogabalo, che si auto definiva signora, fu l'unico (probabilmente) imperatore romano transgender; a causa dei suoi comportamenti fu ucciso dalla Guardia Pretoriana e condannato alla damnatio memoriae.
I dati storici su Eliogabalo si devono a: Cassio Dione, Storia Romana LXXX; Historia Augusta, vita di Antonino Eliogabalo.
Nel Basso Impero, ovvero a partire dal IV secolo con l'avvento di Costantino e della religione Cristiana Cattolica come unica religione di Stato, ogni forma di omosessualità venne condannata in modo sempre più stringente e repressivo; la promulgazione da parte degli Imperatori cristiani del V secolo di leggi estremamente intolleranti fu determinata dalla morale cristiana, la cui visione ascetica della vita portava (e porta) a considerare ogni relazione amorosa non finalizzata alla riproduzione, fra cui l'omosessualità attiva e passiva e la masturbazione, un atto impuro, un peccato da condannare.
Il codice Teodosiano (429-439 d.C.), recependo due precedenti leggi del 342 e del 390 d.C., condannava con la morte o la mutilazione ogni forma di omosessualità passiva e transgenderismo.
Con Giustiniano (483-565 d.C.) ogni forma di omosessualità attiva o passiva era condannata con la morte per infanda libido (abominevole desiderio).
termini passivi-ricettivi
Pathicus, pathici: Uomo adulto che assume esclusivamente un ruolo passivo (penetrazione anale o orale); il termine pone in evidenza il suo desiderio di essere dominato ed usato nel ruolo ricettivo volendo cioè esprimere quello che era considerato essere una sorta di masochismo sessuale e non fà necessariamente riferimento ad un comportamento omosessuale; il pathicus può infatti essere dominato da una donna tramite un dildo od anche costringendolo al cunnilingus.
Cinaedus, cinaedi: Maschio effeminato, solitamente passivo nel rapporto anale e orale; per lo più è inteso come maschio che è solito ricevere la penetrazione anale, come ad esempio si può dedurre per il cinaedus usato da Marziale in II.28 o in III.73 o in VI.37 e in generale è questa la traduzione che se ne dà; molto meno semplice è darne la giusta interpretazione nei carmi di Catullo in cui è spesso preferibile utilizzare traduzioni meno esplicite di quelle usate negli epigrammi di Marziale.
Sul dizionario Latino-Italiano Georges - Calonghi, edizione 1930:
cinaedus, i m. (dal greco kinaidos) - uomo libidinoso contro natura, bagascione, cinedo (Catullo ed altri); come agg. svergognato, impudente, sfacciato, cinaedior Catullo 10,24.
Sempre dallo stesso dizionario:
pathicus, a, um (dal greco patikos) - qui muliebra patitur, impudico, cinedo (Catullo ed altri).
Originariamente il cinaedus, termine di origine greca, era un ballerino professionista, un danzatore dall'aspetto effeminato proveniente dai paesi dell'Est; successivamente il termine prese ad essere utilizzato per indicare, generalmente in modo insultante, un effeminato passivo; il termine tuttavia non ha una diretta corrispondenza in italiano e non è di facile traduzione, in quanto tale effeminato poteva essere considerato disgustoso, magari riferendosi ad un adulto esteticamente poco gradevole, ma anche poteva essere considerato eroticamente attraente, pensando ad esempio ad un fanciullo dalle sembianze femminili; inoltre il cinaedus non assumeva necessariamente un ruolo passivo, ma, ad esempio con una donna, oppure con un pathicus, poteva assumere un ruolo attivo.
Puer delicatus: giovane effeminato solitamente schiavo adolescente dall'aspetto attraente scelto dal suo padrone come preferito nelle sue attenzioni pederastiche; veniva talvolta castrato prima del completo sviluppo sessuale, nel tentativo di preservarne le sembianze femminili.
Catamitus, i: catamìte; un Ganimede, un amasio; sinonimo di puer delicatus; il termine deriva dalla corruzione del nome Ganimedes, Ganimede, il giovane coppiere e amante di Giove.
Fellatio (da fellare: succhiare) è il termine generico per indicare un rapporto oro-genitale, in cui il fellator (uomo o donna), che ha un ruolo passivo, stimola con la bocca l'organo sessuale maschile.
Penilingus (da penis, penis: pene + lingua, linguae: lingua) termine usato raramente; è una fellatio praticata con la sola lingua.
Cunnilingus (da cunnus, cunni: vulva + lingua, linguae: lingua) è la stimolazione dell'organo genitale femminile tramite la lingua, ma anche con labbra, denti e bocca in generale.
Pedicator, oris: (sost. n.) sodomita, pigliainculo.
termini attivi-insertivi
Irrumatio (da irrumare: fottere in bocca) a differenza della fellatio, in cui si evidenzia il ruolo passivo dell’uomo o della donna che esegue la fellatio, che tuttavia effettua in modo attivo la stimolazione del pene mentre il partner insertivo può rimaner fermo, irrumare pone in evidenza il ruolo totalmente attivo ed a volte violento dell’uomo insertivo (irrumator) ed il ruolo segnato come degradante del fellator che rimane completamente fermo e passivo; l'irrumator attivo spinge con forza il pene e letteralmente pratica l’atto sessuale nella bocca del partner passivo/a.
Pedico, are: praticare sodomia su qualcuno, inculare, penetrare analmente.
altri termini
Pedo, pepedi, peditum, ere: spetezzare, tirar correggie, scorreggiare (Orazio, Marziale e altri);
Peditum, i: sostantivo neutro (Catullo 54,3) peto, correggia = crepitus ventris;
Sopio, sopionis: pene, largo pene, cazzo; anche "testa di cazzo" (persona nelle azioni e nei pensieri fortemente deprecabile) e forse "uno che ragiona col cazzo" (persona le cui azioni sono fortemente influenzate dal pene); anche termine attribuito a qualcuno provvisto di un enorme fallo, raffigurazione a scopo caricaturale di persona provvista di un enorme pene, una sorta di priapo; similmente a "testa di cazzo" ma con sfumature più morbide e meno aggressive si potrebbe utilizzare "cazzone" (persona sciocca, buona a nulla, oziosa, idiota). Il termine è utilizzato da Catullo nel carme 37 e viene anche documentato in due graffiti ritrovati a Pompei; il graffito Cil IV.1700: ut merdas edatis, qui scripseras sopionis (chiunque disegni un cazzo, che possa mangiarsi la merda) e il graffito riportato da Sacerdos: quem non pudet et rubet, non est homo, sed sopio (colui che è senza vergogna e non arrossisce, non è un uomo ma un cazzo).
Marziale, specchio del comune sentire popolare, si riferisce spesso alla fellatio (e alle sue numerose varianti) effettuata tanto da uomini, che come già detto pone sempre in ridicolo, che da donne, solitamente prostitute, con le quali pure è spesso critico, mostrando per queste in definitiva lo stesso sentimento di condanna che esiste ancora oggi da parte di molti nei loro confronti.
Il poeta considera il viso o la bocca venuti a contatto con un organo genitale maschile o femminile inquinati ed impuri ed appare disgustato dall'idea di un contatto fisico, quale ad esempio un bacio di saluto, con una persona che abbia effettuato la fellatio o il cunnilingus (I.94, II.50, VII.95, IX.67).
L'opera moralizzatrice di Ottaviano Augusto
Ottaviano Augusto si prefisse una vasta opera di moralizzazione dei costumi romani e nel 18 a.C. definì due leggi contro l'adulterio ed il calo delle nascite.
Lex Julia de maritandis ordinibus: i divorziati, i vedovi, i celibi devono sposarsi per non perdere una parte della loro eredità.
Lex Julia de adulteriis coercendis: su denuncia di un cittadino era perseguito ogni rapporto adultero, che fosse cioè avvenuto al di fuori di matrimonio e concubinaggio, escludendo però l'attività delle prostitute; i condannati erano esiliati e perdevano parte dei loro beni; era anche condannato lo stuprum di vergini e vedove; non era contemplato lo stuprum di puer liberi, ma la lex Scatinia continuava ad essere valida.
Ancora nel 9 d.C. Augusto promulgò la Lex Papia Poppea con cui si cerca di rafforzare la figura ormai compromessa del Pater Familias e in cui si fa' obbligo agli sposi che contraggono un secondo matrimonio di fare dei figli.
Di fatto tutte queste leggi erano assai poco rispettate già dai tempi dello stesso Augusto; del resto erano per primi gli Imperatori e i nobili più ricchi e potenti a non rispettare tali leggi severissime, mentre era sempre possibile per un popolano restar punito; tali leggi più che moralizzatrici ebbero l'effetto di scatenare il terrore delle calunnie.
Il culto di Iside
Iside era una dea della mitologia egizia il cui culto aveva un largo seguito presso le matrone romane; la dea, liberatasi del suo sposo rappresentava la libertà in amore e l'uguaglianza tra i sessi; era quindi un culto deleterio per la stabilità della morale patriarcale romana.
Il culto fu a più riprese perseguito: nel 53 a.C. furono distrutti tutti i templi dedicati ad Iside, ma a fronte della rivolta popolare di fronte a tale imposizione nel 43 a.C. Lepido, Antonio ed Ottaviano promisero la costruzione di un nuovo tempio a lei dedicato; la conquista dell'Egitto accelerò la diffusione di tale culto e così nel 28 a.C. Augusto proibì la celebrazione del culto all'interno del Pomerium e nel 21 a.C. Agrippa lo interdì anche nei dintorni della città; eppure il culto continuava ad esser celebrato nelle case private e la stessa Giulia, figlia di Ottaviano Augusto, ne fu una seguace; ancora Tiberio fece demolire il tempio di Iside.
Caligola ripristinò il culto di Iside e fece realizzare un grande tempio in Campo Marzio, l'Iseo Campense, nei pressi della odierna piazza della Minerva, dietro al Pantheon; questo tempio era abbellito da quattro importanti obelischi che ancora abbelliscono Roma: obelisco della Rotonda, della Minerva, di Dogali e di Boboli, quest'ultimo trasferito a Firenze nel 1788.
I successivi imperatori generalmente tollerarono tale culto almeno fino all'avvento del Cristianesimo come unica religione di Stato.
Marziale e Catullo
Non furono poi moltissimi gli autori latini che si cimentarono nel genere letterario osceno:
I più noti furono Marziale, che ci ha lasciato centinaia di epigrammi profani, e Catullo (Gaius Valerius Catullus; Verona, 84 a.C. − Roma, 54 a.C.).
In effetti Catullo è per Marziale costante punto di riferimento; da lui eredita lo svolgimento frizzante e veloce delle tematiche, la varietà delle metriche utilizzate, quali l’endecasillabo falecio, ed il distico elegiaco, oltre che naturalmente la scelta di tematiche a carattere erotico.
Catullo scrive il famosissimo Carmen 16 in cui dopo aver minacciato di ritorsioni di natura sessuale i due denigratori benpensanti Aurelio e Furio scandalizzati dei suoi versi troppo sdolcinati e poco epici il poeta contrappone ai suoi versi lascivi la sua vita casta, mettendo in chiaro che se pure un poeta può scriver versi licenziosi quel che realmente conta è la rettitudine verso sé stesso nella vita vissuta.
La stessa posizione che Catullo assume nel Carmen 16 la prende anche Marziale, consapevole delle problematiche che i suoi epigrammi profani potevano suscitare presso ad esempio gli ambienti imperiali.
Come Catullo in 16.5-6 spiega che esser casto nella propria vita è giusto per il poeta pio ed integro ma nulla deve esser richiesto ai suoi versetti analogamente Marziale sin dall’inizio della sua produzione epigrafica, nel famoso epigramma del Liber I Carmen 4 rivolto all’imperatore Domiziano, che immagina leggere il suo libro, pone ben in chiaro la contrapposizione tra i versi scritti e la vita vissuta, scrivendo:
Lasciva est nobis pagina, vita proba est.
ovvero:
La mia pagina è lasciva, la mia vita è proba.
od anche:
I miei scritti sono impertinenti, licenziosi e lussuriosi, ma la mia vita è morigerata, onesta, retta e casta.
E come Catullo in 16.7-10 teorizza la necessità per i suoi versi di esser teneri e poco casti (molliculi ac parum pudici) per aver il sale e la grazia (salem ac leporem) con cui catturare l’attenzione del lettore, anche risvegliando in qualche vecchio incanutito certi pruriti ormai sopiti, analogamente Marziale scrive ad esempio l’epigramma VII.25, in cui dichiara la ricerca, nella scrittura dei suoi versi, del gusto dell’aceto, dell’amaro fiele, dell’asprigno fico di Chio, in cui trova la vera bellezza.
Marziale considera Catullo il suo modello di poesia epigrammatica; questo lo attesta in numerosi epigrammi: in IV.4.13, in X.103.5, in VII.99.9, in V.5.5-6 dove chiede a Sesto direttore della biblioteca di Minerva Palatina di trovar spazio pei suoi libri accanto a quelli di Albinovano Pedone, Domizio Marzo, e Catullo; infine in X.78.14-16 si augura per il futuro di rimaner letto fra i poeti antichi e di esser secondo solo a Catullo.
A giustificazione dei suoi epigrammi osceni ancora scrive in I.35, rivolgendosi ad un certo Cornelio, che l’utilizzo di queste tematiche spudorate era per lui una necessità ineluttabile, per poter aver successo, altrimenti sarebbe stato immondo come un Priapo castrato.
Giustificare la sua produzione letteraria tutt’altro che epica poteva per certi aspetti esser complicato, ma lui era il poeta del popolo e questo in fondo era ciò che il popolo voleva leggere e per questo Marziale era poi così noto e letto fra i suoi contemporanei; del resto lui stesso si compiaceva di questo aspetto dei suoi scritti e lo poneva in evidenza, come ad esempio nell’epigramma III.69 in cui si rivolge a Cosconio.
Priapo (Priapus)
Il Priapo era una divinità agreste posta a protezione dei campi, degli orti e dei giardini, ed anche dio della fertilità della natura e della virilità, dotato di un enorme fallo perennemente ed oscenamente eretto (o poteva semplicemente essere una entità dalle sembianze falliche).
Figlio di Afrodite e di Dioniso (o Adone o Zeus) (Strabone, XII.1.12; Pausania, IX.31.2), nel mito accadde che Era, sorella e moglie di Giove, gelosa dei rapporti adulterini di Giove stesso con Afrodite, per vendetta diede a Priapo degli enormi e grotteschi organi genitali; per la vergogna della sua deformità fu abbandonato dalla madre e successivamente espulso dall’Olimpo in quanto, ubriaco, tentò di abusare di Estia.
Il culto di Priapo era praticato in Grecia nel periodo ellenistico, nascendo forse già nel VI secolo a.C.; dalla Grecia si diffuse a Roma dove ebbe la massima notorietà in epoca augustea.
I contadini ponevano cippi di forma fallica a delimitazione dei loro campi (custodes hortorum); il Priapo era generalmente armato di un falcetto o di una zappa ed in testa gli venivano poste delle canne, che fungevano da spaventapasseri; nei confronti degli umani il Priapo forniva una protezione simbolica e allontanava dal campo il malocchio degli invidiosi (Ovidio, Metamorphoses XIV.640); nel corso delle stagioni il priapo poteva essere adornato dal contadino coi frutti dello stesso campo.
L'usanza di utilizzare dei cippi fallici è ancora oggi talvolta riscontrabile al sud Italia o nelle Isole ed anche in Spagna, in Grecia e in Macedonia.
I poemetti dedicati ai Priapi erano solitamente trascritti su lastre poste alla base dei Priapi situati a protezione di giardini e campagne coltivate ed erano quindi destinati ad esser letti anche da chi si accingeva ad effettuare dei furti in quei campi; per questo solitamente il Priapo si rivolge in prima persona al lettore, minacciandolo delle sue punizioni in caso di furti.
Il dio era solito punire gli umani con la penetrazione, vaginale per le donne, orale per gli uomini, anale per i giovani maschi (Priapea 13, Priapea 22); a volte la punizione poteva consistere nella penetrazione anale per tutti i trasgressori (Priapea 11, Priapea 31), od anche prima anale e poi orale; se invece un umano desiderava le sue punizioni, la sua raffinata perversione lo portava a rifiutarsi di infliggere la punizione stessa (Priapea 64).
I Priapea (Priapeia) o Carmina Priapea sono una raccolta di 83 poemetti satirici dedicati a Priapo scritti in epoca classica; gli autori sono ignoti ma si ritiene possano esser stati scritti dai poeti che si incontravano al cenacolo di Mecenate; oltre a questi si hanno altri dodici epigrammi, per un totale di 95, attribuiti ad Albio Tibullo (84), a Marziale (85, 86, 90, 91, 92, 93, 94) a Catullo (87, 88, 89), a Orazio (95), oltre a ulteriori tre appartenenti alla appendix virgiliana (priapea virgiliani).
I Carmina Priapea sul web:
Versione latina e traduzione inglese: Sportive Epigrams on Priapus [translation by Leonard C. Smithers and Sir Richard Burton, 1890]
Solo versione latina: Carmina Priapea
Impudicus digitus - mostrare il dito medio (alzato)
Quella di offendere le persone con la mano stretta a pugno ed il dito medio sollevato non è un'usanza nata in USA; già nel mondo greco si faceva riferimento a tale gesto osceno, come risulta dalla commedia "Le nuvole" di Aristofane (450 a.C. circa – 385 a.C. circa).
Anche questa usanza dal mondo greco si diffuse in Roma: viene citato come inpudicus digitus (Carmina Priapea 56); ostendere impudicum digitum (mostrare il dito impudico) Martialis Epigrammaton VI.70; porrigere medium digitum (allungare, distendere, protendere il dito medio) in Epigrammaton II.28; ancora Marziale cita il dito in IX.97 ma si riferisce all'essere indicato (schiatta d'invidia perché sono segnato a dito dalla folla) ed è più probabile potesse trattarsi del dito indice; viene definito infamis digitus da Persio, (Satira II.33) usato bagnandolo con la saliva per poi purificare la fronte del bambino onde rimuovere il malocchio, con una valenza quindi propiziatoria; tale dito poteva anche essere utilizzato per richiamare presso di sé qualcuno.
Svetonio cita il digitum alludendo al medio:
Suetonius, de vita Caesarum, divus Augustus, 45
[...] et Pyladen urbe atque Italia summoverit, quod spectatorem, a quo exsibilabatur, demonstrasset digito conspicuumque fecisset.
Vita dei Cesari, il divo Augusto, 45
"[...] e (il pantomimo) Pilade fu espulso da Roma e dall'Italia, poiché, ad uno spettatore, dal quale era fischiato, indirizzò il dito (medio) attirando l'attenzione di tutti verso di lui."
Dito impudico o infame assumeva quindi una valenza oscena ma poteva tuttavia essere anche usato in modo quasi neutro.
Il significato osceno del gesto è rimasto lo stesso nei secoli: imita un pene con i suoi testicoli e rappresenta concettualmente la minaccia per la persona che si vuol offendere di essere sodomizzata; questo vorebbe evidenziare la mancanza di virilità della persona verso cui è rivolto il gesto e la sua predilezione a subire la penetrazione anale, considerata, da chi esegue il gesto, umiliante; od anche il gesto semplicemente vorrebbe esplicitare ed ostentare la virilità di chi lo esegue ed il suo essere dominante rispetto all'altro, rievocando la relazione dominus - servus.
Altre testimonianze del linguaggio osceno
Tra gli autori che talvolta utilizzarono tali termini, oltre a Marziale e Catullo, vanno anche ricordati Giovenale, Plauto ed alcune satire giovanili di Orazio; di Orazio da ricordare ad esempio la satira del Liber I sermo VIII sulle pratiche magico-demoniache di Sagana e Canidia al Campo Esquilino e sul Priapo posto a guardia di quei giardini.
Inoltre va ricordato il Satyricon di Petronio, di cui ci sono pervenuti solo gran parte dei libri XIV e XVI e per intero il XV libro, che contiene la cena di Trimalchione (Cena Trimalchionis); probabilmente lo scritto venne distrutto per via della licenziosità degli argomenti descritti.
Che le tematiche sessuali fossero ampiamente trattate nella vita reale degli antichi romani, oltre che esser scontato, è provato da alcuni affreschi a sfondo sessuale che sono stati ritrovati, e dai resti di frasi scritte sui muri dai writers antichi romani, graffiti ritrovati in gran numero ad esempio sui muri di Pompei ed Ercolano.
Cicerone Nelle Epistule ad Familiares esamina e conferma il carattere osceno e profano di molti di questi termini.
Ancora se ne ritrova l’utilizzo negli scritti di medici ed in particolare di veterinari in cui tali termini sono però utilizzati non nel senso osceno ma semplicemente come termini gergali.
In questa pagina ho raccolto alcuni di tali epigrammi col testo in latino e con la relativa traduzione.
traduzioni: Filippo Maria SACCA'
Giustificazione degli epigrammi profani
Epigrammaton Liber I carmen 4
Contigeris nostros, Caesar, si forte libellos,
Terrarum dominum pone supercilium.
Consuevere iocos vestri quoque ferre triumphi,
Materiam dictis nec pudet esse ducem.
Qua Thymelen spectas derisoremque Latinum,
Illa fronte precor carmina nostra legas.
Innocuos censura potest permittere lusus:
Lasciva est nobis pagina, vita proba.
Se, piacendo alla sorte, ti capiterrano tra le mani i miei libretti,
Cesare, Signore del mondo, distendi il tuo sopracciglio.
Anche i tuoi trionfi son soliti provocare burle e facezie,
né il condottiero si vergogna d'esser oggetto di qualche scherzo.
T'imploro leggi le mie poesie con quello stesso sguardo
che hai quando osservi Timele e il dileggiatore Latino.
Il potere può tollerare dei giochi innocenti:
la mia pagina è licenziosa, la vita giusta.
pone supercilium: distendi il sopracciglio; Marziale immagina l'Imperatore che, leggendo i suoi scritti trasgressivi, aggrotta la fronte, sollevando il sopracciglio, domandandosi perplesso se tollerare o meno quelle sconcezze; del resto Marziale non scrisse mai qualcosa di sconveniente riferito all'Imperatore.
Caesar: si riferisce all'Imperatore Domiziano.
Latino: famoso attore comico. per lui Marziale scrisse l'epitaffio IX.28
frons, frontis: fronte; parte esteriore, apparenza, vista; facciata;
illa fronte: con quella fronte (distesa); probabilmente si riferisce al pone supercilium, il ciglio aggrottato del secondo verso, che porta anche alla fronte aggrottata.
Epigrammaton Liber I carmen 35
Versus scribere me parum severos
Nec quos praelegat in schola magister,
Corneli, quereris: sed hi libelli,
Tamquam coniugibus suis mariti,
5 Non possunt sine mentula placere.
Quid si me iubeas talassionem
Verbis dicere non talassionis?
Quis Floralia vestit et stolatum
Permittit meretricibus pudorem?
10 Lex haec carminibus data est iocosis,
Ne possint, nisi pruriant, iuvare.
Quare deposita severitate
Parcas lusibus et iocis rogamus,
Nec castrare velis meos libellos.
15 Gallo turpius est nihil Priapo.
Tu ti rammarichi, Cornelio, che i versi ch’io compongo
sian poco austeri e che il maestro non possa
tramandarli nella scuola: ma questi libretti,
come i mariti per le loro spose,
5 non posson appagare (il lettore) senza (considerar) l’uccello.
Cosa (sarebbe) se tu mi proponessi di scrivere una canzone nuziale
usando parole non ammesse nelle occasioni nuziali?
Chi permetterebbe i vestiti alle feste di Flora,
ed alle meretrici la pudicizia d’una veste?
10 La parola usata in queste poesie è giocosa,
e (i mie' carmi) non potrebber piacere, se non fosser pruriginosi.
Per cui, ti chiedo, abbandona la severità,
abbi riguardo per le lussurie e le facezie,
e non castrare i miei libretti mentre spiccano il volo.
Nulla è più ignominioso d’un Priapo senza palle.
Epigrammaton Liber III carmen 69
Omnia quod scribis castis epigrammata verbis
Inque tuis nulla est mentula carminibus,
Admiror, laudo; nihil est te sanctius uno:
At mea luxuria pagina nulla vacat.
5 Haec igitur nequam iuvenes facilesque puellae,
Haec senior, sed quem torquet amica, legat.
At tua, Cosconi, venerandaque sanctaque verba
A pueris debent virginibusque legi.
Tutti gli epigrammi che scrivi contengon (solo) caste parole
ed io ammiro e rispetto che nei tuoi poemetti mai è citato
il cazzo; nessuno è pio e virtuoso come te:
alla mia pagina (invece) non manca alcuna volgarità.
5 Queste (mie pagine) perciò sian lette dai giovani e dalle fanciulle di facili costumi,
le legga il vecchio, quello però che si ripassa l’amichetta.
Mentre le tue parole venerate e pure, Cosconio,
debbon esser lette dai giovanetti (adolescenti) e dalle (fanciulle) illibate.
Epigrammaton Liber VII carmen 25
Dulcia cum tantum scribas epigrammata semper
Et cerussata candidiora cute,
Nullaque mica salis nec amari fellis in illis
Gutta sit, o demens, vis tamen illa legi!
5 Nec cibus ipse iuvat morsu fraudatus aceti,
Nec grata est facies, cui gelasinus abest.
Infanti melimela dato fatuasque mariscas:
Nam mihi, quae novit pungere, Chia sapit.
ad un poeta demente
Tu sempre scrivi epigrammi tanto affabili (e delicati)
e più candidi (e trasparenti) della pelle imbiancata di (rilucente) biacca,
e in quei (versi) nulla vibra (d’un granello) di sale né esiste una goccia
d’amaro fiele, oh banale stolto, ed ancor desideri che quelli sian letti!
5 Il cibo stesso non è gradito al palato defraudato dell’aceto,
né il viso, al qual manchi la fossetta, risulta piacevole (ed amabile).
La dolce meletta ed anche l’insulso fico dolce dalli pure agl’infanti:
dal momento che a me, avvezzo all’asprigno, piace il fico di Chio.
2] cerussata: biacca o bianco di piombo - pigmento pittorico inorganico, tossico, molto elastico, di colore bianco, utilizzata nel corso dei secoli da numerosi artisti.
Epigrammaton Liber X carmen 4
Qui legis Oedipoden caligantemque Thyesten,
Colchidas et Scyllas, quid nisi monstra legis?
Quid tibi raptus Hylas, quid Parthenopaeus et Attis,
Quid tibi dormitor proderit Endymion?
5 Exutusve puer pinnis labentibus? aut qui
Odit amatrices Hermaphroditus aquas?
Quid te vana iuvant miserae ludibria chartae?
Hoc lege, quod possit dicere vita 'Meum est.'
Non hic Centauros, non Gorgonas Harpyiasque
10 Invenies: hominem pagina nostra sapit.
Sed non vis, Mamurra, tuos cognoscere mores
Nec te scire: legas Aetia Callimachi.
Tu che leggi di Edipo e del tenebroso Tieste,
di Medea e di Scilla, cos'altro leggi se non mostruosità?
Cosa t'importa del ratto di Ila, cosa di Partenopeo ed Atte,
cosa te ne viene da Endimione addormentato?
O cosa dal fanciullo (Icaro) spogliato delle cadenti penne? O piuttosto
da Ermafrodito che odia le acque in amore (per lui)?
A cosa ti giovano le false e vuote sciocchezze di scritti mediocri?
Leggi questo (piuttosto), sulla vita che tu possa dire 'è la mia'.
Qui non troverai Centauri, non Gorgoni né Arpie:
La mia pagina ha il sapore dell'uomo.
Ma tu non desideri, Mamurra, conoscere i tuoi costumi
né capire te stesso: leggiti pure gli Aitia di Callimaco.
Epigrammaton Liber XI carmen 20
Caesaris Augusti lascivos, livide, versus
Sex lege, qui tristis verba latina legis:
'Quod futuit Glaphyran Antonius, hanc mihi poenam
Fulvia constituit, se quoque uti futuam.
Fulviam ego ut futuam? quid si me Manius oret
Pedicem, faciam? non puto, si sapiam.
"Aut futue, aut pugnemus" ait. Quid, quod mihi vita
Carior est ipsa mentula? Signa canant!'
Absolvis lepidos nimirum, Auguste, libellos,
Qui scis Romana simplicitate loqui.
Tu che, livido di invidia, leggi le mie frasi latine con severità,
leggiti questi sei giocosi versi di Cesare Augusto:
"Poiché Antonio s'è scopato Glafira, Fulvia m'impone,
come punizione, ch'io mi fotta lei.
Io dovrei scoparmi Fulvia? E cosa dovrei fare, se Manio m'implorasse
d'incularlo? Non credo, se m'è rimasto un po' di buon senso.
'O mi fotti o tra noi sarà guerra' lei afferma. Oh no, come può la vita
essermi cara più dello stesso cazzo? Che risuonino i segnali di battaglia!"
Senza dubbio tu assolvi i miei amabili libretti, o Divino Augusto,
tu, che conosci la semplicità e la schiettezza del parlare romano.
Fulvia (83 - 40 a.C.), terza moglie di Marco Antonio, che sposò nel 44 a.C., fu molto attiva negli intrighi di potere; nel 43 riuscì a favorire l'accordo tra Marco Antonio, Ottaviano ed Emilio Lepido, che formarono il triumvirato; nel 42 Antonio, prima della sua intesa politica e sessuale con Cleopatra, ebbe una relazione con Glafira, avvenente regina della Cappadocia;
Augusto: Ottaviano Augusto.
Epigrammi profani
Epigrammaton Liber I carmen 46
Cum dicis 'Propero, fac si facis,' Hedyle, languet
Protinus et cessat debilitata Venus.
Expectare iube: velocius ibo retentus.
Hedyle, si properas, dic mihi, ne properem.
Il frettoloso Edilo
Quando dici 'sbrigati, fallo se desideri', Edilo,
l'erezione perde vigore e l'indebolito desiderio vien meno.
Ordina di attendere: sarò più veloce se sono trattenuto.
Edilo, se hai fretta, dimmi di fare con calma.
1] propero, fac si facis: ho fretta, fallo se vuoi farlo; allude ad un rapporto sessuale.
Hedyle: vocativo di nome maschile; ma il senso in fondo non cambierebbe se si applicasse ad un nome femminile.
3] expectare iube: lo scrittore attesta l'importanza dei preliminari prima di un rapporto; Marziale resta tuttavia focalizzato sulle sole problematiche del ruolo attivo.
4] si properas, dic mihi, ne properem: letteralmente: se hai fretta, dimmi di non avere fretta.
I.46 in dialetto romanesco
Edilo, quanno che me dichi 'sbrighete, datte da fa' se t'arrazza',
me se smoscia tutto e me fai puro passà la voja.
E dimme d'aspettà: so' più veloce se me trattenghi.
A Edilo, se c'hai prescia, dimme de fa' co' carma.
Epigrammaton Liber I carmen 58
Milia pro puero centum me mango poposcit:
risi ego, sed Phoebus protinus illa dedit.
Hoc dolet et queritur de me mea mentula secum
laudaturque meam Phoebus in invidiam.
Sed sestertiolum donavit mentula Phoebo
bis decies: hoc da tu mihi, pluris emam.
Il mercante mi chiese centomila sesterzi per un fanciullo:
io risi, ma Phebo li pagò senza pensarci.
Il mio cazzo addolorandosi per questo e lamentandosi tra sé
di me stesso, nonostante la mia invidia elogiò Phebo.
Ma il cazzo ha donato a Phebo due milioni
di sesterzi: dalli a me, lo pagherò molto di più.
Phebo aveva accumulato due milioni di sesterzi prostituendosi, e quindi grazie al suo pene.
Epigrammaton Liber I carmen 65
Cum dixi ficus, rides quasi barbara verba
et dici ficos, Laetiliane, iubes.
Dicemus ficus, quas scimus in arbore nasci,
Dicemus ficos, Caeciliane, tuos.
Ho detto 'fichi' e tu ridi quasi ch'io parlassi come un barbaro
e pretendi, Lietoano, che si dica 'ficozzi'.
Allora chiameremo 'fichi' quelli che sappiamo nascer sull'albero,
'ficozzi' quelli che spuntan dal tuo culo, Ceciliano.
L'epigramma è uno scherzo basato sul doppio senso dato al termine ficus e come spesso accade in questi casi non è semplice rendere una traduzione che colga lo scherzo; ho tradotto il ficos con ficozzo, termine che è usato in dialetto romanesco per dire bernoccolo (sulla testa); volendo, in generale può anche indicare una protuberanza formatasi in altra parte del corpo e può ben rappresentare i ficozzi delle emorroidi; del resto non conosco l'etimologia di ficozzo, ma il termine appare piuttosto simile a ficosus.
Laetiliane, Caeciliane: la quasi totalità delle versioni latine danno i due nomi differenti, Letiliano e Ceciliano, ma è evidente che si riferisce allo stesso personaggio ed infatti solitamente le traduzioni usano uno solo dei due nomi in entrambe le ricorrenze nell'epigramma; Letiliano potrebbe allora essere forse inteso come una storpiatura del nome Ceciliano e dal momento che le emorroidi erano considerate prerogativa di chi aveva rapporti anali, ho tradotto Letiliano storpiandolo in Lietoano;
ficus, i e ficus, us: albero di fico, frutto del fico; anche emorroidi;
sull'uso di ficus, ficos e ficosus vedi anche Carmen Priapea 41 ed epigramma VII.71;
Dicemus ficos tuos: chiameremo ficozzi i tuoi;
Epigrammaton Liber I carmen 77
Pulchre valet Charinus, et tamen pallet.
Parce bibit Charinus, et tamen pallet.
Bene concoquit Charinus, et tamen pallet.
Sole utitur Charinus, et tamen pallet.
5 Tingit cutem Charinus, et tamen pallet.
Cunnum Charinus lingit, et tamen pallet.
Stà in ottima salute, Carino, e tuttavia è pallido.
Beve moderatamente, Carino, e tuttavia è pallido.
Digerisce assai bene, Carino, e tuttavia è pallido.
Ha piacere di prendere il sole, Carino, e tuttavia è pallido.
Mette l'olio sulla pelle, Carino, e tuttavia è pallido.
Carino lecca la fica, ma resta sempre pallido.
Fellatio e Cunnilingus era considerate pratiche depravate; l'ultimo verso dovrebbe spiegare, secondo quello che allora era accettato come comune senso morale, perché Carino fosse così pallido; Catullo nel Carme 80 descrive il pallore delle labbra di Gellio in conseguenza delle sue attività oro-genitali.
Epigrammaton Liber I carmen 90
Quod numquam maribus iunctam te, Bassa, videbam
Quodque tibi moechum fabula nulla dabat,
Omne sed officium circa te semper obibat
Turba tui sexus, non adeunte viro,
5 Esse videbaris, fateor, Lucretia nobis:
At tu, pro facinus, Bassa, fututor eras.
Inter se geminos audes committere cunnos
Mentiturque virum prodigiosa Venus.
Commenta es dignum Thebano aenigmate monstrum,
10 Hic ubi vir non est, ut sit adulterium.
La lesbica Bassa
Poiché mai ti ho visto abbracciata ad un uomo, Bassa,
e poiché alcuna chiacchera ti coinvolgeva con un adultero,
ma ad ogni occasione intorno a te sempre partecipava
una moltitudine del tuo sesso, senza che uomo alcuno si avvicinasse,
5 mi apparivi, te lo confesso, come una (casta) Lucrezia:
ma tu Bassa, quale orrendo oltraggio, pretendevi di fottere (come un maschio).
Tu hai il coraggio di congiungere tra loro due fiche
e con una bizzarra libidine fai finta di essere un uomo.
Hai inventato un mostro degno dell'enigma tebano,
10 in questo luogo ove non c'è un uomo, pure c'è l'adulterio.
Lucretia: Lucrezia era l'incarnazione della castità presso i romani; fu una matrona che, rapita ai tempi dei Re da Tarquinio il Superbo, rimasta incinta si suicidò piuttosto che partorire il disonore.
fututor: colui che fotte; Marziale assegna a Bassa un verbo prettamente maschile.
Thebano aenigmate: l'enigma tebano, dalla mitologia egiziana, si riferisce all'enigma che la Sfinge (un leone alato col volto di una donna) poneva presso le porte della città di Tebe ai passanti che entravano in città; chi non sapeva rispondere veniva divorato.
L'enigma suonava più o meno così:
"Quale animale al mattino ha quattro zampe a mezzogiorno ne ha due ed alla sera tre?"
Edipo si trovò a passare di lì ed alla domanda rispose: "l'uomo"; (la giornata è la metafora della vita, e quindi al mattino il bambino cammina gattoni a quattro zampe, di giorno l'uomo cammina su due gambe, alla sera, nella vecchiaia, si aiuta con un bastone e quindi ha tre zampe; la sfinge sconvolta si suicidò ed Edipo liberò così la città.
Epigrammaton Liber I carmen 92
Saepe mihi queritur non siccis Cestos ocellis,
Tangi se digito, Mamuriane, tuo.
Non opus est digito: totum tibi Ceston habeto,
si deest nil aliud, Mamuriane, tibi.
Sed si nec focus est nudi nec sponda grabati
nec curtus Chiones Antiopesve calix,
cerea si pendet lumbis et scripta lacerna
dimidiasque nates Gallica paeda tegit,
pasceris et nigrae solo nidore culinae
et bibis inmundam cum cane pronus aquam:
non culum - neque enim est culus, qui non cacat olim -
sed fodiam digito qui superest oculum:
nec me zelotypum nec dixeris esse malignum.
Denique pedica, Mamuriane, satur.
Cestio cogli occhietti umidi si lamenta di continuo con me,
Mamuriano, d'esser punzecchiato dal tuo dito (medio).
(Questo) non è lavoro per un dito: tu, Mamuriano, Cestio lo
potrai (anche) avere interamente, se solo non ti mancasse altro.
Ma non possiedi un focolare domestico né un (misero) lettuccio
privo di sponde e neanche un calice smozzato di Chione o di Antiope,
dai lombi ti penzola una mantella scolorita piena di chiazze
e le tue natiche son coperte sol per metà da lacere brache spetezzate,
ti nutri col solo fumo nero d'una (sudicia) cucina
e messo ginocchioni bevi acqua nauseante insieme al cane:
col (mio) dito ti trafiggerò non il culo - dal momento che non è un culo,
quello che non caca mai - ma quel solo occhio che ti rimane:
e non sono geloso né potrai dir ch'io sia dispettoso.
E allora, Mamuriano, incula pure, ma ben riempito (dal mio dito).
Cestus: Cestio, un servo di Marziale;
tango, tetigi, tactum, ere: toccare, tastare; palpare; stimolare; pungere satiricamente; essendo il soggetto attivo un dito è probabile che Marziale si riferisse al fatto che Mamuriano inseriva il dito nell'ano di Cestio, come si deduce anche dalla prosecuzione dell'epigramma; in tal senso nel mio dizionario ho trovato pungere in senso satirico;
non siccis ocellis: occhietti non secchi; occhietti piangenti;
curtus calix: calice, tazza mutilata, incompleta; ad esempio mancante del manico ad ansa;
si deest nil aliud tibi: se non ti mancasse altro: se possedessi sufficienti beni da poter vivere;
cerea scripta lacerna: una mantella aperta pallida, scolorita, e dall'aspetto a chiazze;
scripta: che appare di differenti colori causati dalla sua vetustà ed usura;
gallica paeda: ho trovato in una versione gallica braca; la braca era un pantalone molto largo utilizzato dalle popolazioni Galliche, una sorta di mutanda lunga; paedor, oris: sudiciume, squallore, sordidezza per mancanza di cura; affine a pedo, pepedi, peditum, ere : tirar correggie, spetezzare; spetezzata: sporcata dai peti.
Gli ultimi versi contengono alcuni doppi sensi che giocano sulla somiglianza di alcune parole; siccome Mamuriano infila il dito nell'ano di Cestio, Marziale dopo aver illustrato l'estrema povertà di Mamuriano, gli concede di possedere il ragazzo, ma al contempo, come contrappasso, giocando sulla somiglianza tra culum e oculum, gli ficca il dito nell'o-culum; infatti non può ficcarglielo direttamente nel culum in quanto Mamuriano è talmente morto di fame che non va mai a defecare e quindi è come se non lo avesse; il suo culum diviene quindi un oculum e a chiarire meglio la metafora tra culum e oculum, Mamuriano possiede un solo oculum! Il dito di Marziale, quindi, riesce a render sazio Mamuriano, satur, non dalla fame evidentemente, ma satur nel senso di pieno, chiarendo definitivamente che ad esser riempito dal dito sarà il suo culum.
Epigrammaton Liber I carmen 96
Si non molestum est teque non piget, scazon,
nostro rogamus pauca verba Materno
dicas in aurem sic ut audiat solus.
Amator ille tristium lacernarum
et baeticatus atque leucophaeatus,
qui coccinatos non putat viros esse
amethystinasque mulierum vocat vestes,
nativa laudet, habeat et licet semper
fuscos colores, galbinos habet mores.
Rogabit, unde suspicer virum mollem.
una lavamur: aspicit nihil sursum,
sed spectat oculis devorantibus draucos
nec otiosis mentulas videt labris.
Quaeris quis hic sit? Excidit mihi nomen.
Se non è cosa sgradevole e non t'irrita, scazonte mio,
fammi il favore di dir due paroline al nostro Materno
pian pianino nell'orecchio sì che lui solo possa udire.
Quell'appassionato amatore dal tristo mantello
e cogl'abiti di lana betica e dall'aspetto grigiastro,
che non ritiene esser uomini quelli coi vestiti scarlatti
e che dichiara esser per donne le vesti color ametista,
che loda le cose naturali, e possiede e si concede sempre
colori oscuri, proprio lui, par che abbia abitudini da finocchio.
Lui ti domanderà da cos'io sospetti esser costui una femminuccia.
Siamo lì che ci laviamo da soli: lui non guarda nulla al di sopra,
ma osserva con gl'occhi famelici certi pigliainculo in azione
e mentre guarda i cazzi un fremito percorre le sue labbra.
Domandi chi sia costui? Al momento me ne sfugge il nome.
Scazonte è la forma metrica di un trimetro giambico con uno spondeo o un trocheo nell'ultimo piede; come Catullo chiamava a sé gli endecasillabi nel carme 42, così Marziale invoca uno scazonte, un verso, perché lo aiuti a dir quel che deve al buon Materno; il personaggio descritto come un effeminato da Marziale al suo versetto in metrica scazonte doveva in effetti esser proprio lo stesso Materno;
leucophaeatus, a, um: dal disegno grigiastro, dal motivo grigiastro;
coccinatus, a, um: che indossa vesti scarlatte, porpora, rosso-violetto;
amethystinus, a, um: color ametista, blu-violetto;
galbinus, a, um: giallastro, giallo-verdognolo, verde pallido; effeminato;
draucus, i: sodomita;
Epigrammaton Liber II carmen 28
Rideto multum qui te, Sextille, cinaedum
Dixerit et digitum porrigito medium.
Sed nec pedico es nec tu, Sextille, fututor,
Calda Vetustinae nec tibi bucca placet.
5 Ex istis nihil es, fateor, Sextille: quid ergo es?
Nescio, sed tu scis res superesse duas.
Riderai a profusione, Sestillo, di chi sostiene che tu lo prendi in culo
ed allungherai il dito medio (mostrandoglielo).
Ma tu non sei un cultore, Sestillo, del culo né della fica,
e neppur ti piace la calda bocca di Vetustina.
5 Non sei nulla di questo, Sestillo, lo ammetto: dunque cosa sei?
Io non (lo) so', ma tu sai che son rimaste due possibilità.
2] Sextillus: Sestillo; diminutivo di Sextus, usato con accezione dispegiativa; il diminutivo vezzeggiativo è invece Sextilius (Sestilio).
4] Vetustina: suggerisce un nome usato forse in modo spregiativo, un po' come dire "Anzianotta"; potrebbe essere riferito ad una prostituta oppure no, non è chiaro; tale nome ricorre solo in questo epigramma, mentre si ha una Vetustilla in III.93.
6] Res duas superesse: rimangono da considerare due possibilità: Marziale propone una sorta di indovinello:
Nei versi 1-2 Marziale difende Sestillo dall'accusa di essere un cinaedus, colui che riceve la penetrazione anale, invitandolo a ridere di tali accuse ed a mostrare per tutta risposta il dito medio in segno di sfida; nei versi 3 e 4 lo scrittore enumera tutti i ruoli considerati maschili-attivi-penetrativi: pedicare, futuere, irrumare, e nel verso 5 afferma che Sestillo non pratica nulla di ciò; a mio avviso quindi le due possibilità che restano sono:
la fellatio, e, seconda possibilità, che per Marziale era praticamente allo stesso livello di depravazione della prima, il cunnilingus.
L'epigramma è strutturato come un sillogismo: premessa maggiore dei versi 1-2: Sestillo non è cinaedus, premessa minore dei versi 3-4: Sestillo non è pedico, fututor, irrumator, conclusione dei versi 5-6: Sestillo è fellator o cunnilingus; in ogni sezione ricorre il vocativo di Sestillo sempre nella medesima posizione metrica; si osservi che nella premessa maggiore difende la mascolinità di Sestillo e nella conclusione fulminante lo offende in modo peggiore, almeno secondo i canoni antichi romani per cui la peggiore depravazione per il maschio adulto era ricevere la penetrazione orale (era questa la punizione canonica inflitta dal priapo all'adulto di sesso maschile).
II.28 in dialetto romanesco
Te scompiscerai da le risate, Sestì, quanno quarcuno te dirà
che sei un pijanculo e je farai vede quell'impunito der dito medio.
Ma a te nun te piace, Sestì, de mettelo 'n culo o de ripassatte 'na fichetta
e nun te piace nianche de fatte fa' 'na pompa da Vetustilla, boccuccia carda.
Nun te piace nessuna de' stè cose, Sestì, quest'è sicuro: ma allora che cazzo sei?
Me potessi da cecà ma nun lo so', tu però ce lo sai che te so' rimaste du' possibbilità.
Epigrammaton Liber II carmen 33
Cur non basio te, Philaeni? calva es.
Cur non basio te, Philaeni? rufa es.
Cur non basio te, Philaeni? lusca es.
Haec qui basiat, o Philaeni, fellat.
Perché non ti bacio, Fileni?
Perché non ti bacio, Fileni? Sei calva.
Perché non ti bacio, Fileni? Sei rossiccia.
Perché non ti bacio, Fileni? Sei guercia.
Chi bacia questo, Fileni mia, succhia un cazzo.
4] Nei primi tre versi sembra parli solo di Fileni, descritta come calva, rossa e guercia; ma all'insaputa del lettore Marziale contemporaneamente descrive anche un pene in erezione: è provvisto di una estremità, il glande, assimilabile ad una testa calva, diviene rossastro in erezione per l’afflusso di sangue, ed ha un solo occhio (in IX.37.10 Galla viene osservata da un pene descritto come una entità quasi pensante e dotata di libero arbitrio provvista di un sol occhio); è solo alla chiusura dell'epigramma, nel quarto verso, che ci si rende conto di tale analogia beffarda ed offensiva, quando in poche parole il poeta la rende esplicita.
Epigrammaton Liber II carmen 45
Quae tibi non stabat praecisa est mentula, Glypte.
Demens, cum ferro quid tibi? Gallus eras.
Glytto, il tuo uccello che non si rizzava fu reciso.
Stolto, cos’hai a che fare col ferro (di Cibele)? (Di già) eri castrato.
Cibele: dea della natura e degli animali il cui culto fu introdotto a Roma nel 204 a.C.; i suoi sacerdoti, chiamati Galli, durante i Megalesia, feste funebri in onore di Cibele, si procuravano delle ferite ed arrivavano ad evirarsi; Catullo li descrive come eunuchi vestiti da donna.
Epigrammaton Liber II carmen 47
Subdola famosae moneo fuge retia moechae,
levior o conchis, Galle, Cytheriacis.
Confidis natibus? non est pedico maritus:
quae faciat duo sunt: irrumat aut futuit.
Attento, guardati dalla subdola insidia di quella famosa zoccola,
cazzomoscio, più liscio e viscido delle conchiglie di Citèra.
Fai affidamento sulle tue chiappe? Il marito non è solito metterlo in culo:
sono due le cose che fa': o fotte la fica o lo ficca in bocca.
Gallus: Gallo; potrebbe riferirsi ad un nomen ma anche essere usato come riferimento alla impotenza del personaggio, il quale essendo liscio, ossia depilato, si presume potesse essere effeminato e di conseguenza, procedendo per stereotipi, anche poco mascolino cioé con difficoltà di erezione, da cui Gallo, il nome attribuito ai sacerdoti di Cibele che erano soliti castrarsi o evirarsi;
Cytheriacus, a ,um: di Citèra; appartenente a Citèra; Citera è un'isola posta di fronte all'estremità meridionale della Laconia, a sud ovest del campo di Malea; celebre per il culto di Afrodite o Venere, che secondo la leggenda da qui uscì dalla spuma del mare; quindi può anche significare sacro a Venere;
vengono enunciate le tre azioni sessuali attive: pedicare, irrumare, futuere; nel verso 3 il marito non è pedicus; nel verso 4 è fututor con le donne, e dunque per il tipo avvisato nel verso 1 non resta che subire la pena della irrumatio; dal verso 3 si deduce che la pratica anale, pedicare, fosse considerata meno degradante della pratica orale, irrumare, secondo la comune morale romana.
Epigrammaton Liber II carmen 49
Uxorem nolo Telesinam ducere: quare?
Moecha est. Sed pueris dat Telesina. Volo.
Non voglio condurre Telesina in moglie: Perché?
È una zoccola. Ma Telesina si dedica ai ragazzi. Allora lo voglio.
Epigrammaton Liber II carmen 50
Quod fellas et aquam potas, nil, Lesbia, peccas.
Qua tibi parte opus est, Lesbia, sumis aquam.
Se succhi l’uccello e poi bevi dell’acqua, Lesbia, non sbagli.
Utilizzi l’acqua, Lesbia, nel modo che ti è utile.
Epigrammaton Liber II carmen 51
Unus saepe tibi tota denarius arca
Cum sit et hic culo tritior, Hylle, tuo,
Non tamen hunc pistor, non auferet hunc tibi copo,
Sed si quis nimio pene superbus erit.
Infelix venter spectat convivia culi
Et semper miser hic esurit, ille vorat.
Solitamente il tuo intero forziere contiene un solo denario
che è più consumato, Hyllo, del tuo culo,
e non te lo porterà via il fornaio, e neanche l'oste della taverna,
ma andrà a qualche arrogante dotato d'un pene esagerato.
Il triste stomaco assiste al banchetto del culo
e sempre questo, sventurato, ha fame, quello, (ingordo), divora.
Denario: moneta d'argento pari a 10 Assi o 4 Sesterzi.
Epigrammaton Liber II carmen 54
Quid de te, Line, suspicetur uxor
et qua parte velit pudiciorem,
certis indiciis satis probavit,
custodem tibi quae dedit spadonem.
Nil nasutius hac maligniusque.
Quel che sospetta di te tua moglie, Lino,
e su quale parte lei desideri tu ti mantenga decoroso,
lo ha dimostrato adeguatamente con indizi sicuri,
nel momento che ti ha affidato a un custode eunuco.
Non esiste qualcuno perspicace e dispettoso come lei.
Nil nasutius hac maligniusque: niente ha più naso ed è più dispettoso che lei.
Epigrammaton Liber II carmen 61
Cum tibi vernarent dubia lanugine malae,
lambebat medios inproba lingua viros.
Postquam triste caput fastidia vispillonum
et miseri meruit taedia carnificis,
uteris ore aliter nimiaque aerugine captus
adlatras nomen quod tibi cumque datur.
Haereat inguinibus potius tam noxia lingua:
nam cum fellaret, purior illa fuit.
Il calunniatore
Quando dalle guance ti spuntò la prima incerta lanugine,
la tua lingua depravata leccava fra le gambe gli uomini.
Successivamente la tua deplorevole persona si è prostituita agli
sprezzanti becchini e alla noia del miserabile boia,
usi la bocca in un altro modo e preso da una smodata cupidigia in qualunque
momento urli rabbioso, qual latrato d'un cane, il nome che ti viene indicato.
Una lingua tanto malefica è preferibile si incolli agli inguini:
infatti quando succhiava i cazzi era più pulita.
Epigrammaton Liber II carmen 62
Quod pectus, quod crura tibi, quod bracchia vellis,
Quod cincta est brevibus mentula tonsa pilis:
Hoc praestas, Labiene, tuae - quis nescit? - amicae.
Cui praestas, culum quod, Labiene, pilas?
Il petto, e le gambe, e le braccia ti depili,
ed intorno all’uccello tagli i peli corti,
questo la fai, Labieno - chi non lo sa? - per la tua amica.
Ma il culo, Labieno, quello, per chi lo depili?
Epigrammaton Liber II carmen 70
Non vis in solio prius lavari
quemquam, Cotile: causa quae, nisi haec est,
undis ne fovearis irrumatis?
Primus te licet abluas: necesse est
ante hic mentula, quam caput, lavetur.
Tu, Cotilo, desideri che nessuno seduto nel sedile della tinozza
si lavi prima di te: quale è il motivo, se non che
sei molto attento a che l'acqua non sia insozzata?
Ti è consentito lavarti per primo: naturalmente va da sè
che ti ci lavi prima il cazzo e poi la testa.
Marziale, suggerendo a Cotilo di lavare prima l'uccello e poi la faccia, allude al fatto che la sua bocca fosse la cosa più sporca, cioè che fosse un fellator, ponendo anche in evidenza che questa tra tutte le possibili pratiche sessuali fosse la più sporca ed ignobile .
Epigrammaton Liber II carmen 89
Quod nimio gaudes noctem producere vino,
Ignosco: vitium, Gaure, Catonis habes.
Carmina quod scribis Musis et Apolline nullo,
Laudari debes: hoc Ciceronis habes:
5 Quod vomis, Antoni: quod luxuriaris, Apici.
Quod fellas, vitium dic mihi cuius habes?
I vizi di Gauro
Io (ti) scuso se col troppo vino trascorri lieto
la notte: hai un vizio, Gauro, (che è anche) di Catone.
Per il fatto che scrivi versi senza alcuna (ispirazione) dalle Muse e da Apollo,
devi esser lodato: questo è (un difetto anche) di Cicerone:
5 riguardo al vomito, (riprendi una pecca) di Antonio: allorché gozzovigli, di Apicio.
ma, dimmi, quando succhi l’uccello, di chi hai il vizio?
3] Musae et Apollo: Le muse ed Apollo; Le Muse sono le dee della musica, della poesia e della danza, figlie di Zeus; in senso più ampio sono le divinità della scienza e dell’arte; come metafore della conoscenza esse accompagnano ed ispirano l’artista nella sua creazione. Apollo era il protettore delle Muse e dio della musica e della poesia, oltre che della virtù profetica, dell’arte del tiro con l’arco e della medicina.
5] luxuriaris: Deliziarsi in allegri festini con abbondante cibo e bevande
Epigrammaton Liber III carmen 26
Praedia solus habes et solus, Candide, nummos,
Aurea solus habes, murrina solus habes,
Massica solus habes et Opimi Caecuba solus,
Et cor solus habes, solus et ingenium.
5Omnia solus habes - hoc me puta velle negare! -
Uxorem sed habes, Candide, cum populo.
La moglie di Candido
Tu solo possiedi i poderi e solo tuoi, Candido, sono i quattrini,
solo tuo l'oro, solo tua la mirra,
tu solo hai anfore di massica e caecuba di Opimio,
e tuo solo è il sentimento, e tuo solo l'ingegno.
Tu solo hai ogni cosa - questo, credimi, vorrei negarlo -
ma la moglie, Candido, (quella) la condividi con il popolo (intero).
Epigrammaton Liber III carmen 65
Quod spirat tenera malum mordente puella,
Quod de Corycio quae venit aura croco;
Vinea quod primis floret cum cana racemis,
Gramina quod redolent, quae modo carpsit ovis;
Quod myrtus, quod messor Arabs, quod sucina trita,
Pallidus Eoo ture quod ignis olet;
Glaeba quod aestivo leviter cum spargitur imbre,
Quod madidas nardo passa corona comas:
5 Hoc tua, saeve puer Diadumene, basia fragrant.
Quid si tota dares illa sine invidia?
Il profumo dei tuoi baci
Quello che emana da una tenera fanciulla mentre morde una mela,
quello che si diffonde con un soffio dallo zafferano di Coricio;
che (proviene) dalla vigna quando fiorisce (resa) cenerina per i primi grappoli,
che (si leva) dal pascolo erboso, or ora brucato dalle pecore;
l'odore del mirto, del mietitore arabo, dell'ambra fatta in pezzi,
del fuoco (reso) pallido per l'incenso orientale (che vi brucia);
che si spande dalla zolla d'erba dopo la lieve pioggia estiva,
che si propaga dalla ghirlanda posta su chiome madide di nardo:
5 di questo profumano i tuoi baci, Diadumeno, selvatico fanciullo.
Ah! Cosa sarebbe se me li dessi tutti senza farmeli penare?
1] Corycio...croco: lo zafferano di Coricio; Corycos è una regione della Cilicia nota per la produzione di zafferano;
3] messor Arabs: letteralmente il mietitore arabo; fa evidentemente riferimento all'odore delle messi più che all'odore del mietitore; dal momento che le spezie orientali arrivavano a Roma passando tutte dall'Arabia, spesso il cittadino romano riteneva erroneamente che quel luogo fosse l'origine delle spezie e non semplicemente un paese in cui tali merci transitavano;
3] Pallidus ... ignis: il fuoco pallido, reso giallino dalla combustione dell'incenso;
5] tota dares illa sine invidia: se tutti quelli me li dessi senza avversione; Marziale esprime la frustrazione per il fatto che il desiderabile fanciullo è incostante e volubile e mal si adatta ai desideri sessuali di un adulto, cosa del resto del tutto naturale vista la giovane età.
Epigrammaton Liber III carmen 71
Mentula cum doleat puero, tibi, Naevole, culus,
Non sum divinus, sed scio quid facias.
I passatempi di Nevolo
Quando al tuo giovane schiavetto duole il cazzo, e a te, Nevolo, il culo,
io non credo d’esser indovino, ma comprendo quel che fai di bello.
Epigrammaton Liber III carmen 72
Vis futui, nec vis mecum, Saufeia, lavari.
Nescio quod magnum suspicor esse nefas.
Aut tibi pannosae dependent pectore mammae,
Aut sulcos uteri prodere nuda times,
5 Aut infinito lacerum patet inguen hiatu,
Aut aliquid cunni prominet ore tui.
Sed nihil est horum, credo, pulcherrima nuda es.
Si verum est, vitium peius habes: fatua es.
La sciocca Saufeia
Desideri esser fottuta, Saufeia, ma non hai voglia di lavarti con me.
Non capendone il motivo sospetto si tratti d'una enorme bruttura.
Forse le mammelle penzolano sbrindellate dal tuo petto,
o da nuda temi di esporre le pieghe (di grasso) del ventre,
o il lacero inguine si apre su una smisurata voragine,
o piuttosto dalle labbra della tua fica fuoriesce qualcosa.
Ma non è nulla di tutto questo, (io) credo, (e) da nuda sei bellissima.
Se è vero, hai un difetto peggiore: sei stupida.
Epigrammaton Liber III carmen 73
Dormis cum pueris mutuniatis,
et non stat tibi, Galle, quod stat illis.
Quid vis me, rogo, Phoebe, suspicari?
Mollem credere te virum volebam,
sed rumor negat esse te cinaedum.
Dormi coi ragazzetti ben cazzuti, cazzomoscio,
e quel che a loro stà ben ritto a te non resta duro.
Cosa vuoi, mi chiedo, Phebo, ch'io supponga?
Avrei preferito crederti una femminuccia,
ma le voci negano che tu sia una checca pigliainculo.
Gallo: Così si chiamavano i sacerdoti della dea Cibele, che erano solitamente castrati, effeminati e travestiti;
dal momento che non gli si drizza non ha ruoli sessuali attivi; escludendo nel quarto verso il cinedus, non resta che pathicus o fellator; Marziale vuol quindi suggerire che Phebo fosse un fellator (e pathicus, essendo questa la definizione di uomo esclusivamente passivo).
rumor: Spesso quando Marziale si riferisce al rumor, le voci, le chiacchere, allude alla fellatio.
Epigrammaton III.75
Stare, Luperce, tibi iam pridem mentula desit,
Luctaris demens tu tamen arrigere.
Sed nihil erucae faciunt bulbique salaces,
Inproba nec prosunt iam satureia tibi.
5 Coepisti puras opibus corrumpere buccas:
Sic quoque non vivit sollicitata Venus.
Mirari satis hoc quisquam vel credere possit,
Quod non stat, magno stare, Luperce, tibi?
Ormai da qualche tempo il cazzo non ti si drizza, Luperco,
nondimeno tu lotti delirante cercando di fartelo indurire.
Ma non hanno alcun effetto la rucola e le cipolle afrodisiache,
né in aggiunta ti è utile la famigerata santoreggia.
5 Hai iniziato a corrompere col denaro bocche incontaminate:
ma anche così sollecitata Venere non ritorna in vita.
chi si meraviglia di questo o potrebbe mai creder che, quel che
non si solleva ritto, si erga a così gran costo di denaro, Luperco?
1]L’impotenza sessuale era uno dei principali argomenti per attaccare ed offendere un antagonista.
3] eruca sativa:rughetta o rucola o ruchetta.
5] Si rivolgeva a dei giovani (corrompere bocche incontaminate) per farsi praticare la fellatio dietro pagamento.
8] Credo che il senso di tale verso sia da ricercare nel gioco di parole, ottenuto sfruttando un doppio significato che è possibile attribuire al verbo sto, stare, steti, status, a seconda del contesto, utilizzato nel primo e nell'ultimo verso. Nel primo verso usa stare nel senso di erezione, nel verso 8 usa col medesimo significato stat ed anche magno stare alludendo invece al grande costo dei suoi tentativi per ritrovare l'erezione.
Epigrammaton Liber III carmen 79
Rem peragit nullam Sertorius, inchoat omnes.
Hunc ego, cum futuit, non puto perficere.
Su Sertorio, che nulla termina
Sertorio tutto incomincia, alcun cosa termina.
Anche quando scopa, io ritengo, non finisce.
Epigrammaton Liber III carmen 87
Narrat te, Chione, rumor numquam esse fututam
Atque nihil cunno purius esse tuo.
Tecta tamen non hac, qua debes, parte lavaris:
Si pudor est, transfer subligar in faciem.
Il pudore di Chione
Il pettegolezzo dice, Chione, che tu mai sia stata fottuta
e che non v’è fica che sia più pura della tua.
Tuttavia la parte coperta che devi lavare alle terme non è questa:
se hai il senso del pudore, metti le mutande sulla faccia.
4] transfer subligar in faciem: allude al fatto che evidentemente Chione praticava intensivamente la fellatio.
Epigrammaton Liber III carmen 88
Sunt gemini fratres, diversa sed inguina lingunt.
Dicite, dissimiles sunt magis, an similes?
Sono fratelli gemelli, ma leccano genitali opposti.
Voi che dite, sono più diversi, o più somiglianti?
diversa inguina lingunt: uno lecca il cazzo, l'altro la fica.
Per Marziale sono assai simili, in quanto entrambe le cose erano considerate una depravazione per un uomo.
Epigrammaton Liber III carmen 93
Cum tibi trecenti consules, Vetustilla,
Et tres capilli quattuorque sint dentes,
Pectus cicadae, crus colorque formicae;
Rugosiorem cum geras stola frontem
5 Et araneorum cassibus pares mammas;
Cum conparata rictibus tuis ora
Niliacus habeat corcodilus angusta,
Meliusque ranae garriant Ravennates,
Et Atrianus dulcius culex cantet,
10 Videasque quantum noctuae vident mane,
Et illud oleas quod viri capellarum,
Et anatis habeas orthopygium macrae,
Senemque Cynicum vincat osseus cunnus;
Cum te lucerna balneator extincta
15 Admittat inter bustuarias moechas;
Cum bruma mensem sit tibi per Augustum
Regelare nec te pestilentia possit:
Audes ducentas nuptuire post mortes
Virumque demens cineribus tuis quaeris
20 Prurire. Quid si Sattiae velit saxum?
Quis coniugem te, quis vocabit uxorem,
Philomelus aviam quam vocaverat nuper?
Quod si cadaver exigis tuum scalpi,
Sternatur Acori de triclinio lectus,
25 Talassionem qui tuum decet solus,
Ustorque taedas praeferat novae nuptae:
Intrare in istum sola fax potest cunnum.
L'orrida Vetustilla
Con te son passati trecento Consoli, Vetustilla,
e ti accompagnano tre capelli e quattro denti,
il petto di una cicala, le zampe ed il colore d'una formica;
mostri una fronte piena di grinze più della stola (d'una matrona)
5 e le tette assomigliano alle reti dei ragni;
un coccodrillo del Nilo ha la bocca
angusta se comparata al tuo mascellone,
e le rane del ravennate borbottano più piacevolmente,
e le zanzare sibilano nell'(ampio) atrio più dolcemente,
10 e vedi quanto i vecchi gufi riescono a vedere alla mattina,
e puzzi come quel marito delle capre,
ed hai le chiappe di un'anatra macilenta,
e la tua fica smunta supera il vecchio (inaridito filosofo) Cinico;
il guardiano dei bagni ti ammette insieme alle puttane
15 che alloggiano nelle tombe sol quando la lucerna è spenta;
per te Agosto è un mese d'inverno
e neanche la febbre pestilenziale può scongelarti:
ed ancora dopo la morte di duecento mariti hai il coraggio di andare a nozze
e come una pazza cerchi un uomo che si ecciti
20 per le tue reliquie. Chi desidera il sasso (tombale) di Sattia?
Chi mai si unirà a te, chi ti chiamerà moglie,
quando Filomelo non tanto tempo fa' già ti chiamava nonna?
Se pretendi che qualcuno scavi fuori il tuo cadavere,
che si prepari il letto del triclinio infernale
25 il solo adeguato al tuo talamo nuziale,
e il crematore porti dinnanzi alla nuova sposa la torcia:
solo la fiamma ardente può penetrare codesta fica.
13] Cynicum: Cinico, appartenente alla scuola filosofica dei Cinici. La filosofia Cinica fondata da Diogene e dal suo maestro Antistene nel IV secolo a.C. in Grecia professava una vita indifferente ai bisogni e moralmente retta; si ispiravano alla vita del cane randagio, ricercavano la felicità nel rapporto con la natura, restando indifferenti ai bisogni e rifiutando la ricerca della ricchezza e dell'agio ed anche ogni coinvolgimento emotivo e sentimentale.
Epigrammaton Liber III carmen 96
Lingis, non futuis meam puellam
Et garris quasi moechus et fututor.
Si te prendero, Gargili, tacebis.
Quel fanfarone di Gargilio
Non fotti la mia ragazza, la lecchi
e blateri quasi tu fossi un adultero e sciupafemmine.
Se ti acchiappo, Gargilio, tacerai.
moechus, i: adultero, contaminato, fornicatore; colui che compie atti sessuali illeciti.
tacebis: tacerai; se fosse un film western questo significherebbe un duello a pistolettate, ma nell'antica Roma erano più sofisticati quanto a punizioni;intende infatti dire che se lo acchiappa gli metterà il pene in bocca, per cui non sarà assolutamente in grado di parlare; questa è la punizione canonica del Priapo per il maschio adulto.
Epigrammaton Liber IV carmen 4
Quod siccae redolet palus lacunae,
Crudarum nebulae quod Albularum,
Piscinae vetus aura quod marinae,
Quod pressa piger hircus in capella,
5 Lassi vardaicus quod evocati,
Quod bis murice vellus inquinatum,
Quod ieiunia sabbatariarum,
Maestorum quod anhelitus reorum,
Quod spurcae moriens lucerna Ledae,
10 Quod ceromata faece de Sabina,
Quod volpis fuga, viperae cubile,
Mallem quam quod oles olere, Bassa.
La puzza di Bassa
(Quello) che la palude esala dalla pozza prosciugata,
(quello) del miasma delle indigeste (acque) albule,
lo stantio fetore del vivaio marino,
del pigro caprone mentre monta la capretta,
5 (quello) dei (vecchi) calzari dello stanco veterano richiamato,
della mantella di lana (ormai) tinta due volte con la porpora,
(il fiato) delle donne ebree che fanno il digiuno,
l'affannoso respiro degli smorti (furfanti riconosciuti) colpevoli,
la lucerna che stà per spegnersi (in casa) della lurida Leda,
10 l'unguento (ottenuto) dalla posatura di olio Sabino,
quello della volpe che fugge (spaventata), (che proviene) dalla tana d'una vipera,
preferirei puzzare di tutto questo, Bassa, piuttosto che emanare il tuo tanfo.
2] Albula, albulae : Le acque di Albula : acque sulfuree (di colore biancastro).
5] Vardaicus: calzature dei soldati.
Evocatus, evocati: soldato veterano richiamato in servizio; si presume egli riprenda gli stessi vecchi e logori calzari che aveva ormai smesso da usare.
6] Murex, muricis: mollusco da cui era estratto il color porpora.
9] Laeda: una prostituta che evidentemente usava olio di pessima qualità per alimentare le sue lucerne.
10] Sabinus, Sabina, Sabinum: la Sabina; antica regione ove abitavano i Sabini, oggi corrispondente grosso modo alla provincia di Rieti, con anche una piccola estensione di territorio in Umbria ed in Abruzzo; la regione era ed è nota per la produzione di olio di oliva.
Ceroma, ceromatis: unguento ceroso con cui si cospargevano i lottatori, ottenuto lavorando la posatura dell'olio di oliva.
Epigrammaton Liber IV carmen 7
Cur, here quod dederas, hodie, puer Hylle, negasti,
durus tam subito, qui modo mitis eras?
Sed iam causaris barbamque annosque pilosque.
O nox quam longa es, quae facis una senem!
Quid nos derides? here qui puer, Hylle, fuisti,
dic nobis, hodie qua ratione vir es?
Perché, Hyllo, ragazzo mio, ciò che ieri avevi donato, oggi lo neghi,
d'un tratto così inflessibile, e un momento prima tanto mansueto?
Ma adesso porti a giustificazione la barba, gli anni, i peli.
Oh, notte, come sei lunga, che da sola rendi un uomo vecchio!
Perché ti prendi gioco di me? Ieri eri un ragazzo, Hyllo,
ma dimmi, come hai fatto oggi a stabilire che sei un uomo?
Epigrammaton Liber IV carmen 43
Non dixi, Coracine, te cinaedum:
non sum tam temerarius nec audax
Nec mendacia qui loquar libenter.
Si dixi, Coracine, te cinaedum,
iratam mihi Pontiae lagonam,
iratum calicem mihi Metili:
iuro per Syrios tibi tumores,
iuro per Berecyntios furores.
Quid dixi tamen? Hoc leve et pusillum,
quod notum est, quod et ipse non negabis,
dixi te, Coracine, cunnilingum.
Coracino leccafica
Non ho detto, Coracino, che tu sei un pigliainculo:
non sono tanto temerario e neanche così sfrontato
né uno che parli di buon grado affermando il falso.
Se mai avessi detto, Coracino, che sei una frocia,
ch'io potessi conoscere il veleno della fiasca di Ponzia,
ch'io potessi conoscere il veleno del calice di Metilio:
te lo giuro sui tumori che gonfiano i Siriani,
te lo giuro sulla follia dei fanatici di Cibele.
Cosa ho detto allora? una sciocchezza insignificante,
che tutti conoscono, e che tu stesso non potrai negare,
ho solo detto, Coracino, che tu sei un gran leccafica.
iratam mihi Pontiae lagonam, iratum calicem mihi Metili: che mi abbia in odio la fiasca di Ponzia, che mi abbia in odio il calice di Metilio; Ponzia e Metilio erano degli avvelenatori.
per Syrios tumores: in alcune traduzioni il verso viene associato ad una stranezza relativa al culto di Iside ma in verità non ho trovato al momento alcun possibile riferimento concreto che possa rendere il senso traslato del verso.
Berecyntius, a, um: Cibele, appartenente a Cibele; un culto officiato da sacerdoti, detti Galli, che si erano castrati per rendere onore alla divinità.
cunnilingum: praticare il cunnilingum era considerato una depravazione pari alla fellatio; Marziale rassicura Coracino di non averlo mai accusato di essere un cinaedus, ossia genericamente un effeminato, ma nel verso finale lo definisce un pathicus, ossia un passivo; la pratica oro genitale che sia fellatio o cunnilingum era considerata la massima depravazione, assai più degradante della penetrazione anale.
Epigrammaton Liber IV carmen 48
Percidi gaudes, percisus, Papyle, ploras.
Cur, quae vis fieri, Papyle, facta doles?
Paenitet obscenae pruriginis? an magis illud
fles, quod percidi, Papyle, desieris?
Godi a essere inculato, Papilo, e dopo esserti fatto inculare piangi e ti lamenti.
Perché mai, Papilo, quel che desideri che accada, una volta accaduto ti fà soffrire?
Sei forse rammaricato del tuo osceno desiderio? O piuttosto, Papilo,
versi lacrime perché hai terminato di farti inculare, e vuoi ricominciare?
Epigrammaton Liber VI carmen 7
Iulia lex populis ex quo, Faustine, renata est
Atque intrare domos iussa Pudicitia est,
Aut minus aut certe non plus tricesima lux est,
Et nubit decimo iam Telesilla viro.
5 Quae nubit totiens, non nubit: adultera lege est.
Offendor moecha simpliciore minus.
Da quando è stata ripristinata la legge Julia, Faustino,
e l'imposizione della castità è entrata nelle case,
son passati trenta giorni o forse meno,
e Telesilla di già sposa il suo decimo marito.
5 Quella che si sposa tutte queste volte, non si sposa: è adultera per legge.
Offende di meno una semplice bagascia.
Si riferisce alla Lex Julia de maritandis ordinibus, voluta da Ottaviano Augusto nel 18 a.C., con la quale si voleva combattere il calo demografico imponendo l'obbligo di sposarsi ai single, quali vedovi/e, celibi/nubili, divorziati/e. Le vedove dovevano risposarsi entro 90 giorni, le divorziate entro un anno, pena la perdita di parte dell'eredità.
Epigrammaton Liber VI carmen 23
Stare iubes nostrum semper tibi, Lesbia, penem:
Crede mihi, non est mentula, quod digitus.
Tu licet et manibus blandis et vocibus instes,
Te contra facies imperiosa tua est.
Le pretese di Lesbia
Lesbia, pretendi che il mio pene stia sempre dritto per te:
il cazzo, credimi, è cosa diversa da un dito.
Sebbene tu insista deliziandomi con le mani e incalzandomi con le parole,
a render vani i tuoi sforzi si pone il tuo volto perentorio.
VI.23 in dialetto romanesco
Lesbia, tu pretenni ch'er pisello mio deve da stà sempre in tiro pe' te:
er cazzo, me devi da crede, è 'na cosa differente che 'n dito.
Tu poi pure insiste a tocchicciamme co' le mani delizziose e a dimme zozzerie
ma quanno che vedo la faccia imperiosa che c'hai me fai passà la voja.
Epigrammaton Liber VI carmen 36
Mentula tam magna est, quantus tibi, Papyle, nasus,
Ut possis, quotiens arrigis, olfacere.
Le protuberanze di Papilo
Il tuo uccello è tanto grosso, Papilo, quanto il tuo naso,
Così, ogni volta che ti si rizza, puoi annusarlo.
Epigrammaton Liber VI carmen 56
Quod tibi crura rigent saetis et pectora villis,
verba putas famae te, Charideme, dare?
Extirpa, mihi crede, pilos de corpore toto
teque pilare tuas testificare natis.
'Quae ratio est?' inquis. Scis multos dicere multa:
fac pedicari te, Charideme, putent.
Dal momento che hai gambe irte di peli e petto villoso,
tu pensi di far cessare le voci di pettegolezzi su di te?
Dammi retta, strappa via i peli dall'intero corpo
e dì a tutti che ti depili le natiche. 'Qual è il motivo?'
Domandi. Tu sai che tanta gente chiacchera troppo:
è meglio che si creda che lo prendi in culo, Caridimo.
La gente mormora che Caridimo si dedichi alla fellatio; quindi gli conviene far sapere che si dedica solo alla pedicatio passiva in quanto la fellatio era considerata la pratica più degradante in assoluto;
Epigrammaton Liber VI carmen 73
Non rudis indocta fecit me falce colonus:
Dispensatoris nobile cernis opus.
Nam Caeretani cultor ditissimus agri
Hos Hilarus colles et iuga laeta tenet.
5 Aspice, quam certo videar non ligneus ore
Nec devota focis inguinis arma geram,
Sed mihi perpetua numquam moritura cupresso
Phidiaca rigeat mentula digna manu.
Vicini, moneo, sanctum celebrate Priapum
10 Et bis septenis parcite iugeribus.
Il Priapo
Un ignorante contadino mi intagliò non rozzamente con un falcetto:
tu puoi osservare il nobil lavoro del (mio) creatore.
Ilaro, senza dubbio ricchissimo coltivatore dell’agro Ceretano,
possiede questi colli e queste prosperose creste montuose.
5 Osserva, quel viso ben definito non sembra di legno
né l’arma del (mio) inguine adatta (ad esser usata come spiedino) sul fuoco,
ma il mio cazzo degno della mano di Fidia, (fatto) di imperituro
cipresso (che) mai marcirà, rigido si erge verso l’alto.
Oh vicini (malintenzionati), io vi avviso, rispettate (questo) sacro Priapo
10 ed astenetevi (dal saccheggiare) questi quattordici jugeri.
Epigrammaton Liber VII carmen 14
Accidit infandum nostrae scelus, Aule, puellae;
Amisit lusus deliciasque suas:
Non quales teneri ploravit amica Catulli
Lesbia, nequitiis passeris orba sui,
5 Vel Stellae cantata meo quas flevit Ianthis,
Cuius in Elysio nigra columba volat:
Lux mea non capitur nugis neque moribus istis,
Nec dominae pectus talia damna movent:
Bis denos puerum numerantem perdidit annos,
10 Mentula cui nondum sesquipedalis erat.
Alla nostra fanciulla, Aulo, accadde una indicibile disgrazia;
(ella) perse il suo trastullo e delizia:
non quale quella (sventura) per cui Lesbia, l’amante del tenero Catullo,
piangeva, malvagiamente privata del suo passero,
5 od anche quella cantata dal mio Stella che piangeva Iante,
la cui nera colomba vola nell’Elisio:
la mia giornata non è presa da frivolezze e neanche da queste abitudini,
né alla padrona tali perdite smuovono il cuore:
(ella) perse un giovane (schiavo) che contava (appena) vent’anni,
10 il cui uccello non era ancora lungo un piede e mezzo.
2] Riprende il noto Carmen I.2 di Catullo dedicato al passero di Lesbia.
3] Si riferisce al Carmen I.3 di Catullo sulla morte del passero di Lesbia.
10] Sesquipedalis: un piede e mezzo ovvero quasi 45 centimetri ...
Epigrammaton Liber VII carmen 18
Cum tibi sit facies, de qua nec femina possit
Dicere, cum corpus nulla litura notet,
Cur te tam rarus cupiat repetatque fututor,
Miraris? Vitium est non leve, Galla, tibi:
5 Accessi quotiens ad opus mixtisque movemur
Inguinibus, cunnus non tacet, ipsa taces.
Di facerent, ut tu loquereris et ille taceret:
Offendor cunni garrulitate tui.
Pedere te mallem: namque hoc nec inutile dicit
10 Symmachus et risum res movet ista simul:
Quis ridere potest fatui poppysmata cunni?
Cum sonat hic, cui non mentula mensque cadit?
Dic aliquid saltem clamosoque obstrepe cunno,
Et si adeo muta es, disce vel inde loqui.
I rumori di Galla
Dal momento che sei bella, e nessuna femmina di questo può parlare,
poiché sul tuo corpo alcun appunto può esser fatto,
ma ciò nonostante raramente chi ti scopa desidera rifarlo,
ti sorprendi? il tuo difetto non è cosa lieve, Galla:
5 tutte le volte che ci mettiamo all'opera e nella frenesia gl'inguini
si bagnano, tu taci, ma la (tua) fica non tace.
Un dio facesse sì che tu parlassi e quella tacesse:
sono disturbato dalla loquacità della tua fica.
Preferirei che tu scorreggiassi: Simmaco afferma che questo
10 non sia inutile ed anche che ciò provochi al contempo il riso:
ma chi mai può rider degli insensati schiocchi di una fica?
Quando lei risuona, a chi non precipiterebbe il cazzo e la ragione?
Almeno dì qualcosa e urla sopra allo strepito della fica,
e se anche tu volessi restar muta, impara sul serio a parlar da lì.
10] Symmachus: Simmaco, uno dei dottori più citati da Marziale nei suoi epigrammi.
11] Poppysmata: Poppysma, poppysmatis: esprime uno schiocco effettuato con le labbra o con la lingua; Marziale usa una sola volta tale termine, ed una sola volta lo usa Catullo.
Epigrammaton Liber VII carmen 30
Das Parthis, das Germanis, das, Caelia, Dacis,
Nec Cilicum spernis Cappadocumque toros;
Et tibi de Pharia Memphiticus urbe fututor
Navigat, a rubris et niger Indus aquis;
5 Nec recutitorum fugis inguina Iudaeorum,
Nec te Sarmatico transit Alanus equo.
Qua ratione facis, cum sis Romana puella,
Quod Romana tibi mentula nulla placet?
Le preferenze di Celia
Ti dai ai Parti, ti dai ai Germani, ti dai, Celia, ai Daci,
e neppur disdegni le protuberanze dei Cilici e dei Cappadoci;
e (quello) di Memphi veleggia (giungendo) dalla città Egizia
per fotterti, e (naviga) dalle acque del Mar Rosso il nero Indiano;
né fuggi gli uccelli dei Giudei circoncisi,
e non ti dimentica l’Alano sul cavallo Sarmatico.
Ciò che vorrei comprendere è, dal momento che sei una fanciulla Romana,
perché non ti piace alcun cazzo Romano?
Epigrammaton Liber VII carmen 58
Iam sex aut septem nupsisti, Galla, cinaedis,
dum coma te nimium pexaque barba iuvat.
Deinde experta latus madidoque simillima loro
inguina nec lassa stare coacta manu,
deseris inbelles thalamos mollemque maritum;
rursus et in similes decidis usque toros.
Quaere aliquem Curios semper Fabiosque loquentem,
hirsutum et dura rusticitate trucem:
invenies: sed habet tristis quoque turba cinaedos.
Difficile est vero nubere, Galla, viro.
Non si trovan più i maschi d'una volta, Galla mia
Di già, Galla, ti sposasti sei o sette checche pigliainculo,
quando ancora ti deliziavi con l'esagerato capellone e la barba ben pettinata.
Fatta così esperienza con fianchi sudati e piselli mosci come cinghie di pelle
e allorché l'esasusta mano pur se costretta non riusciva più a muoversi,
abbandonasti talami imbelli e mariti incapaci che paion donnette;
ma ancora e ancora ogni volta ti ritrovi in simili giacigli nuziali.
Tu infatti cerchi qualcuno che parli di continuo degli austeri Curii e Fabii,
che sia ruvido e inflessibile nella sua rusticana fierezza:
di certo lo troverai: ma anche questa folla ha i suoi malinconici pigliainnculo.
È difficile, Galla mia, trovare un uomo da sposare che sia un vero maschio.
Epigrammaton Liber VII carmen 71
Ficosa est uxor, ficosus et ipse maritus,
Filia ficosa est et gener atque nepos,
Nec dispensator nec vilicus ulcere turpi
Nec rigidus fossor, sed nec arator eget.
Cum sint ficosi pariter iuvenesque senesque,
Res mira est, ficos non habet unus ager.
La moglie ha le emorroidi, e lo stesso marito ha le emorroidi,
la figlia ha le emorroidi e il genero e il nipote,
e non sono esenti dalla vergognosa piaga né l'economo né il fattore
né il rozzo zappatore, ma neanche l'aratore.
Poiché hanno emorroidi che paion fichi tanto i giovani quanto i vecchi,
è cosa veramente notevole che nel campo non ci sia un sol fico.
Ficus, us: fico; albero di fico; emorroidi; mucchio, catasta, grappolo, cumulo;
ficosus, a, um: colui che è afflitto da emorroidi; carico di fichi, fichi a grappoli; vedi anche I.65 e Carmen Priapea 41;
l'epigramma è evidentemente basato interamente sul gioco del doppio significato attribuito alla parola ficus; viene definita vergognosa piaga in quanto era credenza comune considerare le emorroidi una conseguenza di rapporti anali.
Epigrammaton Liber VII carmen 75
Vis futui gratis, cum sis deformis anusque.
Res perridicula est: vis dare, nec dare vis.
Desideri esser scopata gratis, mentre sei una vecchiaccia deforme.
La cosa è veramente ridicola: desideri dare e non desideri dare.
vis dare, nec dare vis: desideri dare la fica e non desideri dare i soldi.
Epigrammaton Liber VIII carmen 54
Formosissima quae fuere vel sunt,
Sed vilissima quae fuere vel sunt,
O quam te fieri, Catulla, vellem
Formosam minus aut magis pudicam!
Oh, Catulla, se tu fossi meno troia
La più ben fatta di quante furono e sono,
ma la più troia di quante furono e sono,
Oh come desidererei, Catulla, che tu fossi
meno ben fatta o un poco più decente!
Epigrammaton Liber IX carmen 37
Cum sis ipsa domi mediaque ornere Subura,
Fiant absentes et tibi, Galla, comae,
Nec dentes aliter quam Serica nocte reponas,
Et iaceas centum condita pyxidibus,
5 Nec tecum facies tua dormiat, innuis illo,
Quod tibi prolatum est mane, supercilio,
Et te nulla movet cani reverentia cunni,
Quem potes inter avos iam numerare tuos.
Promittis sescenta tamen; sed mentula surda est,
10 Et sit lusca licet, te tamen illa videt.
Nel mentre che tu sei in casa nel mezzo della Suburra, Galla,
i tuoi capelli vengon risistemati altrove, e non diversamente
(mancan) i denti che alla notte riponi come (fosser vesti) di seta,
e dormi sepolta da cento vasetti (di unguenti),
5 né con te dorme il tuo volto, e fai un cenno,
con quel sopracciglio che hai rifatto stamane,
e non mostri rispetto per la tua fica (ormai) canuta,
che potresti già elencare fra i tuoi antenati.
Eppur prometti seicento (delizie); ma il cazzo è sordo,
10 e benché abbia un sol occhio, nondimeno quello ti vede bene.
5] La poverina è talmente brutta che neppure il suo volto riesce a tollerarne la presenza e quando dorme deve fuggir via ...
Epigrammaton Liber IX carmen 41
Pontice, quod numquam futuis, sed paelice laeva
Uteris et Veneri servit amica manus,
Hoc nihil esse putas? scelus est, mihi crede, sed ingens,
Quantum vix animo concipis ipse tuo.
5 Nempe semel futuit, generaret Horatius ut tres,
Mars semel, ut geminos Ilia casta daret:
Omnia perdiderat, si masturbatus uterque
Mandasset manibus gaudia foeda suis.
Ipsam crede tibi naturam dicere rerum:
10 'Istud quod digitis, Pontice, perdis, homo est.'
Le seghe di Pontico
Riguardo al fatto che non fotti mai, Pontico, ma usi la sinistra
come una padrona e la mano amica è schiava della libidine,
pensi che questo non sia importante? è una perversione, credimi, enorme,
tanto che a stento la tua sensibilità potrà comprendere.
Certamente una sola volta scopò Orazio, perché ne generasse tre,
una volta Marte, per dare i gemelli alla casta Ilia:
sarebbero tutti andati persi, se fossero stati masturbatori ed entrambi
avessero affidato alle mani il loro bestiale godimento.
Ascolta cosa ti dice la natura stessa delle cose:
'Codesto che fai scivolar tra le dita, Pontico, è un uomo.'
5] Orazio padre dei tre Orazi, che vinsero la sfida coi tre Curiazi (Tito Livio, Ab Urbe Condita I, 25); se avessero perso quel duello Roma sarebbe stata assoggettata ad Albalonga, oggi identificabile circa in Albano Laziale ai Castelli Romani, che ai tempi dei Re di Roma aveva però una potenza paragonabile a quella dell'Urbe.
6]Ilia: meglio nota come Rea Silvia, fu una vestale sedotta da Marte e madre di Romolo e Remo.
10] Istud quod digitis perdis: letteralmente: codesto che tu sprechi tra le dita, od anche: codesto che tu distruggi con le dita.
perdo perdere: uccidere, ammazzare, distruggere, perdere, sciupare, sprecare. Tuttavia mi pare che nel contesto: far scivolare, renda bene l'idea senza al contempo assumere toni melodrammatici.
Epigrammaton Liber IX carmen 57
Nil est tritius Hedyli lacernis:
Non ansae veterum Corinthiorum,
Nec crus compede lubricum decenni,
Nec ruptae recutita colla mulae,
Nec quae Flaminiam secant salebrae,
Nec qui litoribus nitent lapilli,
Nec Tusca ligo vinea politus,
Nec pallens toga mortui tribulis,
Nec pigri rota quassa mulionis,
Nec rasum cavea latus visontis,
Nec dens iam senior ferocis apri.
Res una est tamen: ipse non negabit,
Culus tritior Hedyli lacernis.
Non c'è nulla di più logoro del mantello di Edilo:
non le antiche maniglie dei vasi Corinzi,
né la viscida caviglia tenuta ai ceppi per dieci anni,
né il collo spellato d'una mula schiantata,
né quei solchi che segnano la Flaminia,
né le pietruzze che brillano sulla spiaggia,
né la zappa consumata dalla vigna Etrusca,
né la toga scolorita d'un tizio morto,
né la ruota squassata d'un mulattiere indolente,
né il fianco d'un bisonte scorticato dalla gabbia,
né la zanna ormai vecchia d'un cinghiale feroce.
In effetti però c'è una cosa: lui stesso non potrà negarlo,
il culo di Edilo è più logoro del suo mantello.
Epigrammaton Liber IX carmen 67
Lascivam tota possedi nocte puellam,
Cuius nequitias vincere nemo potest.
Fessus mille modis illud puerile poposci:
Ante preces totas primaque verba dedit.
5 Inprobius quiddam ridensque rubensque rogavi:
Pollicitast nulla luxuriosa mora.
Sed mihi pura fuit; tibi non erit, Aeschyle, si vis
Accipere hoc munus condicione mala.
Per tutta la notte ho posseduto una fanciulla senza freni,
della quale nessuno può superare la perversione.
Stanco delle mille posizioni pretesi quella dei ragazzini:
ancor non avevo terminato la richiesta e prima che proferissi verbo mi accontentò.
5 Ridendo e arrossendo la invitai allora a qualcosa di indecente:
la smodata me lo promise senza indugi.
Ma con me rimase pura; non lo sarà con te, Eschilo,
se desidererai accettare questo dono ad una condizione infame.
3] illud puerile: la posizione dei ragazzi; si riferisce al rapporto anale nella posizione cosiddetta alla pecorina.
5] Inprobius quiddam: qualcosa di perverso, spudorato, moralmente corrotto; in verità non dice di cosa si tratta e non è chiaro cosa sia; è possibile possa trattarsi di un rapporto orale. O forse un pissing ... chissà...
7] mihi pura fuit: con me rimase pura, casta, illibata; quindi sembra che glielo promise ma non fecero nulla.
8] condicione mala: ad una condizione depravata, infame; i latinisti al riguardo hanno fatto numerose ipotesi senza però arrivare alla conclusione certa di cosa sia questa mala condicione; potrebbe trattarsi del pagamento della prestazione (improbabile), oppure si potrebbe pensare che il partner potesse essere costretto a baciare il viso della ragazza dopo avvenuta la fellatio e Marziale, avendo un vero orrore per il contatto fisico con un viso contaminato da una fellatio anche se era lui stesso l'irrumator, avrebbe rifiutato mantenendo così la fanciulla pura; si potrebbe ancora pensare, ed è forse l'ipotesi più convincente, ad un classico 69 proposto come condizione dalla fanciulla in luogo della semplice fellatio, al ché Marziale, che considerava il cunnilingus una totale depravazione, si sarebbe rifiutato, il ché spiega come mai lei rimase pura.
In ogni caso condicio introduce il concetto di condizione, quindi di una richiesta da parte della ragazza, evidentemente una sorta di contropartita pretesa almeno nei riguardi di Eschilo, mentre con Marziale potrebbe apparire che non richiedesse nulla in cambio, ma in effetti non si sa' in quanto fece solo una promessa e restò pura e quindi presumibilmente non avvenne nulla, a meno di non pensare che con Marziale sarebbe rimasta pura e con Eschilo no, dipendendo ciò dalla qualità degli uomini, ma mi pare una ipotesi improbabile.
Nell'epigramma si nota un crescendo di richieste depravate diminuendo al contempo la certezza nella risposta accondiscendente e la chiarezza di cosa effettivamente si tratti: nemo potest vincere nequitias, poposci illud puerile, rogavi inprobius quiddam fino ad arrivare al: munus condicione mala, che rimane alquanto oscuro nel significato.
Epigrammaton Liber IX carmen 69
Cum futuis, Polycharme, soles in fine cacare.
Cum pedicaris, quid, Polycharme, facis?
Indovina indovinello
Quando scopi, Policarmo, subito dopo aver finito sei solito cacare.
Ma quando lo pigli in culo, Policarmo, dopo, cosa fai?
Nei due versi compare due volte il vocativo del personaggio e cinque differenti verbi.
1] in fine: in Marziale e Giovenale ha un particolare significato sessuale, normalmente ignorato dai dizionari; si riferisce al climax, il momento finale e culminante del rapporto sessuale: nel momento dell'orgasmo. Questo sueggerisce che Policarmo cagasse istantaneamente dopo l'orgasmo.
Polycharme: Policarmo nome di etimologia greca: "sorgente di molta gioia".
2] la risposta all'indovinello è: mentulam cacas - in sostanza Policarmo farà la stessa cosa che dopo aver scopato, ma questa volta cacherà un uccello.
Epigrammaton Liber X carmen 55
Arrectum quotiens Marulla penem
Pensavit digitis diuque mensa est,
libras, scripula sextulasque dicit;
idem post opus et suas palaestras
loro cum similis iacet remisso,
quanto sit levior Marulla dicit.
Non ergo est manus ista, sed statera.
Ogni volta che Marulla soppesa con le dita
e valuta lungamente un pene eretto, ne stabilisce
con precisione il peso in libbre e nelle sue frazioni;
quando lo stesso pisello dopo il lavoro di fortificazione
e le sue ginnastiche giace moscio come una frusta,
Marulla stabilisce di quanto si sia alleggerito.
Non è una mano, dunque, questa, ma una statèra.
libra, ae: libbra, misura di peso di 327,168 grammi, pari a 12 once;
scripulum: scrupolo, misura di peso pari a 1,136 grammi pari a 1/288 di libbra;
sextula, ae: diminutivo di sextus, sesto; misura di peso pari alla sesta parte di un dodicesimo dell'interp cui si riferisce, cioè è pari a 1/72 della parte intera cui si riferisce;
statera, ae: statèra, bilancia a doppio piatto, del genere di quelle usate dagli orefici; l'altro tipo di bilancia classica è la bàscula, con un solo piatto e un'asta col contrappeso in posizione variabile, solitamente meno acccurata della statèra nella pesata.
X.50 in dialetto romanesco
Ogni vorta che Marulla pija 'n cazzo duro tra le dita,
se lo gira e riggira, e così te sa' da dì paro paro
quant'è che pesa puro co' li grammi esatti;
doppo che se l'è lavorato pe' bbenino e j'ha fatto fa' puro
la ginnastica quello resta moscio comme 'no straccetto,
e Marulla te dice puro de quanto s'è alleggerito.
Sta tipa ar posto de la mano s'aritrova 'na statèra.
Epigrammaton Liber X carmen 81
Cum duo venissent ad Phyllida mane fututum
et nudam cuperet sumere uterque prior,
promisit pariter se Phyllis utrique daturam,
et dedit: ille pedem sustulit, hic tunicam.
Quando arrivarono in due da Fillide per una chiavatina mattutina
dal momento che ognuno desiderava averla nuda per primo,
Fillide promise che si sarebbe concessa ad entrambi contemporaneamente, e
fece così: uno la prese per i piedi, l'altro le sollevò da dietro la tunica.
dedit: è inteso nel doppio senso di dedit futuere e dedit pedicare;
pedem...tunicam; si deve immaginare che uno (da davanti) la tenesse per le gambe mentre l'altro le sollevasse (da dietro) la tunica, secondo lo schema della doppia penetrazione.
Epigrammaton Liber X carmen 90
Quid vellis vetulum, Ligeia, cunnum?
Quid busti cineres tui lacessis?
Tales munditiae decent puellas
- Nam tu iam nec anus potes videri -;
Istud, crede mihi, Ligeia, belle
Non mater facit Hectoris, sed uxor.
Erras, si tibi cunnus hic videtur,
Ad quem mentula pertinere desit.
Quare si pudor est, Ligeia, noli
Barbam vellere mortuo leoni.
Come mai, Ligeia, ti depili la fica stagionata?
Perché ridesti le reliquie del tuo rogo?
Tali raffinatezze si addicono alle fanciulle
- e ancora non riesci a veder la vecchiaccia che sei -;
codesta gradevolezza, credimi Ligeia, non la mette
in pratica la madre di Ettore ma la moglie.
Tu sbagli, se questa, per la quale il cazzo ha ormai
perso ogni interesse, ti dovesse sembrare una fica.
Perciò, Ligeia, se t'è rimasto un po' di pudore
non tirar la barba al leone ormai morto.
vetulus, a, um: diminutivo di vetus; vecchietta, attempatella. anzianotta
Epigrammaton Liber XI carmen 19
Quaeris cur nolim te ducere, Galla? Diserta es,
saepe soloecismum mentula nostra facit.
Errori del cazzo
Tu chiedi perché io non desideri una relazione con te, Galla? Tu sei eloquente,
e frequentemente il mio cazzo fa' errori di grammatica.
XI.19 in dialetto romanesco
Tu voi sapè perché nun vojo da stà co' te, Galla? Tu parli bbene,
Ma ch'ho 'n cazzo che ffa' 'n pacco de erori de granmatica.
Epigrammaton Liber XI carmen 21
Lydia tam laxa est, equitis quam culus aheni,
Quam celer arguto qui sonat aere trochus,
Quam rota transmisso totiens inpacta petauro,
Quam vetus a crassa calceus udus aqua,
Quam quae rara vagos expectant retia turdos,
Quam Pompeiano vela negata noto,
Quam quae de pthisico lapsa est armilla cinaedo,
Culcita Leuconico quam viduata suo,
Quam veteres bracae Brittonis pauperis, et quam
Turpe Ravennatis guttur onocrotali.
Hanc in piscina dicor futuisse marina.
Nescio; piscinam me futuisse puto.
La fica sfranta di Lidia
La fica di Lidia è tanto slargata, quanto il culo d'un cavallo di bronzo,
quanto la veloce ruota di ferro che risuona squillante nell'aria,
quanto il cerchio colpito tanto spesso saltando dal trampolino,
quanto un vecchio calzare inzuppato dall'acqua melmosa,
quanto le reti che tendono l'agguato ai rari tordi vagabondi,
quanto il velario del teatro pompeiano senza vento,
quanto il braccialetto scivolato in terra dal braccio d'una checca tisica,
quanto un cuscino che venga orbato della sua imbottitura Leuconica,
quanto le brache consunte d'un Brettone morto di fame, ed anche
quanto l'orrida gola d'un pellicano Ravennate.
Dicono che me la sia scopata in una piscina di mare.
Io non so; credo d'essermi scopato l'intera piscina.
trochus, i: ruota di ferro, cui sono appesi molti anelli staccati che, muovendosi mentre la ruota rotola, tintinnano e crepitano; i ragazzi la adoperavano per giocare in uno spazio aperto, facendola girare con una verghetta di ferro uncinata dotata di un manico di legno (clavis adunca);
Quam rota transmisso totiens inpacta petauro: come il cerchio tanto spesso percosso dal trampolino esteso; verso non di facile interpretazione, probabilmente si riferisce ad un esercizio di abilità consistente nell'attraversare con un salto da un trampolino un cerchio;
calceus, i: tipo di calzatura romana;
piscina marina: piscina di mare, vasca utilizzata per gli allevamenti ittici.
Epigrammaton Liber XI carmen 22
Mollia quod nivei duro teris ore Galaesi
Basia, quod nudo cum Ganymede iaces,
(Quis negat?) hoc nimium est. Sed sit satis; inguina saltem
Parce fututrici sollicitare manu.
5 Levibus in pueris plus haec, quam mentula, peccat,
Et faciunt digiti praecipitantque virum:
Inde tragus celeresque pili mirandaque matri
Barba, nec in clara balnea luce placent.
Divisit natura marem: pars una puellis,
10 Una viris genita est. Utere parte tua.
Usa la parte che ti spetta
Che ruvidamente logori i teneri baci del niveo Galesio,
che giaci con un nudo Ganimede, - chi può negarlo? -
Questo è già oltre misura. Ma (ti) basti;
per lo meno evita di sollecitare gli inguini con la mano libidinosa.
5 Nei delicati ragazzi questo è più sbagliato, che (non) il pene (nell'ano),
e le dita li portano perfino a divenir precocemente uomini:
da quel momento puzzano come capre e i peli crescono celermente e la barba desta
stupore nella madre, né sono gradevoli (se esposti) alla luce nei luminosi bagni.
La natura ha diviso il maschio: un lato è stato creato per le ragazze,
10 l'altro per gli uomini. Usa la parte che ti è stata assegnata.
Epigrammaton Liber XI carmen 25
Illa salax nimium nec paucis nota puellis
stare Lino desit mentula. Lingua, cave.
Quel cazzo di Lino libidinoso oltre misura e assai noto alle fanciulle
non riesce più a restar duro. Stà attenta, lingua.
Epigrammaton Liber XI carmen 28
Invasit medici Nasica phreneticus Eucti
et percidit Hylan. Hic, puto, sanus erat.
Quel pazzo delirante di Nasica aggredì Hylo, lo schiavetto del medico Eucto
e se l'inculò. Io penso che fosse sano di mente.
Epigrammaton Liber XI carmen 29
Languida cum vetula tractare virilia dextra
coepisti, iugulor pollice, Phylli, tuo:
nam cum me murem, cum me tua lumina dicis,
horis me refici vix puto posse decem.
Blanditias nescis: 'dabo' dic 'tibi milia centum
et dabo Setini iugera culta soli;
accipe vina, domum, pueros, chrysendeta, mensas.'
Nil opus est digitis: sic mihi, Phylli, frica.
Quando la tua destra stagionata inizia a maneggiare il mio
languido membro virile, Fillio, col tuo pollice lo strangoli:
giacché mentre mi chiami topino, mentre mi dici che son la tua luce,
credo di poter riprendere le mie forze in almeno dieci ore.
Non sai adularmi: 'ti darò centomila sesterzi' sussurrami,
'e ti darò jugeri di fertile suolo Setino;
accetta vini, una casa, schiavetti, piatti intarsiati d'oro, cene.'
Non è necessario il lavoro delle dita: così, Fillio, devi solleticarmi.
Setinus, i: Setino, di Sezze
Epigrammaton Liber XI carmen 30
Os male causidicis et dicis olere poetis.
Sed fellatori, Zoile, peius olet.
Tu affermi che la bocca degli avvocati e dei poeti puzza.
Tuttavia, Zoilo, quella dei succhiacazzi puzza assai di più.
Epigrammaton Liber XI carmen 43
Deprensum in puero tetricis me vocibus, uxor,
Corripis et culum te quoque habere refers.
Dixit idem quotiens lascivo Iuno Tonanti!
Ille tamen grandi cum Ganymede iacet.
5 Incurvabat Hylan posito Tirynthius arcu:
Tu Megaran credis non habuisse natis?
Torquebat Phoebum Daphne fugitiva: sed illas
Oebalius flammas iussit abire puer.
Briseïs multum quamvis aversa iaceret,
10 Aeacidae propior levis amicus erat.
Parce tuis igitur dare mascula nomina rebus,
Teque puta cunnos, uxor, habere duos.
Alla moglie
Moglie, (tu) mi scopri con un ragazzino, e con voce severa
mi rimproveri affermando che anche tu hai un culo.
Quante volte Giunone disse lo stesso al bramoso (Giove) tonante!
Quello tuttavia giace col prediletto Ganimede.
5 Deposto l’arco (Ercole) di Tirinto faceva piegare Iolao:
tu credi (forse) che (la moglie) Megara non avesse le chiappe?
Dafne fuggente era il tormento dello splendente Apollo: ma
il giovane Giacinto giunse a spegner quei fuochi (d’amore).
Sebbene Briseide spesso si sdraiasse offrendo il di dietro (ad Achille),
10 (tuttavia) era più intimo dell’acheo il glabro amico (Patroclo).
Perciò, moglie (mia), evita di dare un nome maschile
alle tue cose, e convinciti che hai due fiche.
1] Uxor: In effetti Marziale non si sposò mai; quindi parla in prima persona nelle vesti di un ipotetico lettore.
3] Giunone moglie di Giove.
5] Tirynthius: di Tirinto, località greca da cui proveniva Eracle divinità greca il cui corrispondente romano è Ercole.
Hylan: Iole, figlia di Eurito, maestro d’arco di Eracle; di questa si invaghì Eracle.
7] Febo significa splendente, lucente ed è uno dei modi con cui era chiamato Apollo.
Dafne: fu il primo amore di Apollo; Cupido, per vendicarsi di uno sgarbo di Apollo, fece in modo che si innamorasse perdutamente di Dafne, e che questa lo respingesse. Alle offerte d’amore del dio, Dafne, chiesto aiuto alla Madre Terra onde poter fuggire, fu trasformata in albero di alloro. Da allora Apollo utilizzò un rametto di alloro per cingersi la testa.
XI.43 in dialetto romanesco
A mojettì, me trovi co' 'n regazzino e tutt'impettita
me rimproveri dicennome ch'er culo ce l'hai puro tu.
Quante vorte Giunone disse l'istessa cosa a Giove attizzato
ma quello preferisce de stassene co' Ganimede prediletto.
Mollato l'arco Ercole faceva piegà Iolao:
pensi che Megara nun ce l'aveva le chiappe?
Dafne faceva la preziosa e Apollo splendido se tormentava:
ma arrivò Giacinto a fajela dimenticà.
Briseide malizziosa se metteva a pecora
ma Achille se divertiva co' l'ammichetto senza peli.
Allora, mojettina mia, falla finita de dì che è un maschio er
problema tuo, e comicia a pensà d'avecce du' fregne.
Epigrammaton Liber XI carmen 46
Iam nisi per somnum non arrigis et tibi, Mevi,
Incipit in medios meiere verpa pedes,
Truditur et digitis pannucea mentula lassis
Nec levat extinctum sollicitata caput.
Quid miseros frustra cunnos culosque lacessis?
Summa petas: illic mentula vivit anus.
Ormai non ti si rizza se non nel sonno, Mevio,
e il pisello comincia a spisciazzare in mezzo ai tuoi piedi,
e il moscio cazzo raggrinzito dev'esser ficcato con le dita
e pur sollecitato non solleva il capo, ormai privo di vita.
Perché tormenti inutilmente fiche e culi sventurati?
Mira più in alto: lì l'attempato cazzo può ridestarsi.
Incipit in medios meiere verpa pedes: primi segni di incontinenza senile;
Summa petas: Mira più in alto; si riferisce alla bocca.
Epigrammaton Liber XI carmen 47
Omnia femineis quare dilecta catervis
balnea devitat Lattara? Ne futuat.
Cur nec Pompeia lentus spatiatur in umbra,
nec petit Inachidos limina? Ne futuat.
Cur Lacedaemonio luteum ceromate corpus
perfundit gelida Virgine? Ne futuat.
Cum sic feminei generis contagia vitet,
cur lingit cunnum Lattara? Ne futuat.
Per non scopare
Perché Lattara evita tutti i bagni pubblici tanto amati
da frotte di ragazze? Per non scopare.
E perché non passeggia indolente all'ombra del portico di Pompeo,
e non desidera entrare nella casa di Giunone? Per non scopare.
Perché si lava il corpo nella gelida acqua Vergine
rimuovendo il giallo unguento Spartano? Per non scopare.
Poiché evita con tanta attenzione il contatto col genere femminile,
perché Lattara lecca la fica? Per non scopare.
Inachis, chidos: Inachide (figlia di Inaco), cioè Io; Io era una sacerdotessa di Era, la moglie di Giove, nota nella mitologia romana col nome di Giunone e quindi la casa di Inachide, ossia di Io, era il tempio di Era o Giunone.
Lacedaemon, monis: Lacedemone, città del Peloponneso, nota come Sparta.
Epigrammaton Liber XI carmen 60
Sit Phlogis an Chione Veneri magis apta, requiris?
Pulchrior est Chione; sed Phlogis ulcus habet,
ulcus habet Priami quod tendere possit alutam
quodque senem Pelian non sinat esse senem,
ulcus habet quod habere suam vult quisque puellam,
quod sanare Criton, non quod Hygia potest:
at Chione non sentit opus nec vocibus ullis
adiuvat, absentem marmoreamve putes.
Exorare, dei, si vos tam magna liceret
et bona velletis tam pretiosa dare,
hoc quod habet Chione corpus faceretis haberet
ut Phlogis, et Chione quod Phlogis ulcus habet.
Tu mi chiedi se sia Phlogis o Chione la più adatta ai giochi erotici?
Chione è la più bella; ma Phlogis ha una gran voglia,
una voglia che potrebbe far tendere la pelle floscia dei testicoli d'un Priapo
e che consentirebbe al vecchio Pelia di non esser più vecchio,
una voglia che chiunque vorrebbe che la sua amata avesse,
che un dottore può guarire, ma che la dea della salute Higeia non può:
al contrario Chione non percepisce il bisogno né t'incoraggia con una qualunque
frase, tanto che potresti pensare che sia da un'altra parte o magari di marmo.
Se fosse permesso, o dei, implorarvi di concedere un così gran dono
e desideraste accordare favori tanto preziosi,
che voi allora possiate consentire che Phlogis abbia il corpo
di Chione, e che Chione abbia la voglia di Phlogis.
Criton,onis: Critone, dottore maschio, che può esaudire quindi le voglie di una donna in quanto maschio;
Hygia, ae: Higeia, dea della salute, che però, essendo femmina, non può soddisfare le voglie di una donna; ovviamente Marziale non concepiva l'amore lesbico;
Epigrammaton Liber XI carmen 63
Spectas nos, Philomuse, cum lavamur,
et quare mihi tam mutuniati
sint leves pueri, subinde quaeris.
Dicam simpliciter tibi roganti:
pedicant, Philomuse, curiosos.
Ci osservi, Filomuso, mentre ci laviamo,
e ripetutamente domandi perché maschietti
imberbi così ben dotati mi accompagnino.
Risponderò con franchezza alle tue domande:
si inculano i curiosi, Filomuso.
Epigrammaton Liber XI carmen 71
Hystericam vetulo se dixerat esse marito
et queritur futui Leda necesse sibi;
sed flens atque gemens tanti negat esse salutem
seque refert potius proposuisse mori.
Vir rogat, ut vivat virides nec deserat annos,
et fieri, quod iam non facit ipse, sinit.
Protinus accedunt medici medicaeque recedunt,
tollunturque pedes. O medicina gravis!
Leda aveva detto all'attempatello marito d'esser isterica
e ora si rammarica per il suo bisogno d'una scopata;
eppur tra pianti e gemiti nega che la sua salute valga tanto
e ripete d'aver intenzione piuttosto di morire.
L'uomo chiede che viva e che non abbandoni i verdi anni, e così
acconsente che sia fatto quel che lui ormai non è più in grado di fare.
All'istante, mentre le guaritrici si ritirano, arrivano i guaritori,
e le aprono le gambe. Ah, la penosa e faticosa via della guarigione.
tolluntur pedes: le sollevano i piedi;
Epigrammaton Liber XI carmen 77
In omnibus Vacerra quod conclavibus
consumit horas et die toto sedet,
cenaturit Vacerra, non cacaturit.
Vacerra passa ore ed ore in tutte le latrine
pubbliche e resta seduto l'intero giorno, ma Vacerra
desidera un invito a pranzo, non gli scappa di cacare.
Epigrammaton Liber XI carmen 99
De cathedra quotiens surgis - iam saepe notavi -
pedicant miserae, Lesbia, te tunicae.
Quas cum conata es dextra, conata sinistra
vellere, cum lacrimis eximis et gemitu:
sic constringuntur gemina Symplegade culi
et nimias intrant cyaneasque natis.
Emendare cupis vitium deforme? Docebo:
Lesbia, nec surgas censeo, nec sedeas.
Ogni volta che ti alzi dalla poltroncina - già l'ho notato spesso -
le tue infelici tuniche ti s'infilano tra le chiappe, Lesbia.
Quando poi aiutandoti con la destra e con la sinistra cerchi
di liberarti, tra lacrime e gemiti le strappi via:
tanto le vesti strizzano la coppia di meloni del tuo culone
e penetrano quelle natiche esagerate che vi si richiudono sopra.
Desideri correggere questo sgradevole difetto? Te l'insegnerò:
Tu, Lesbia, non devi mai pensare di alzarti, né di sederti.
tunica, ae: veste di donne e uomini romani, con maniche corte, portato immediatamente sulla pelle, sopra cui per uscire gli uomini indossavano la toga e le donne la stola o la palla;
Cathedra, ae: sedia, specialmente sedia munita di bracciuoli e di uno sgabello imbottito usato dalle matrone romane, poltrona;
Symplegas, gadis: Simplegade; le Simplegadi sono due isolette rocciose allo sbocco del Bosforo Tracio, dette anche Cyaneae, le quali, secondo il mito, si urtavano continuamente e sfracellavano chiunque passasse tra loro, finché dopo la felice traversata della nave Argo, divennero immobili; ora sono le isolette Urek e Jaki;
Epigrammaton Liber XII carmen 35
Tamquam simpliciter mecum, Callistrate, vivas,
Dicere percisum te mihi saepe soles.
Non es tam simplex, quam vis, Callistrate, credi.
Nam quisquis narrat talia, plura tacet.
La schiettezza di Callistrato
Quasi vivessi con me con estremo candore, Callistrato,
suoli dirmi che spesso vien compiuta la sodomia su di te.
Non sei così candido come vorresti apparire, Callistrato.
Infatti chiunque racconti tali cose, molte altre ne tace.
In XII.42 il barbuto Callistrato sposa il severo Afro assumendo nella coppia il ruolo femminile.
tacet: non può parlare avendo un pene in bocca.
Epigrammaton Liber XII carmen 75
Festinat Polytimus ad puellas;
Invitus puerum fatetur Hypnus;
Pastas glande natis habet Secundus;
Mollis Dindymus est, sed esse non vult;
5 Amphion potuit puella nasci.
Horum delicias superbiamque
Et fastus querulos, Avite, malo,
Quam dotis mihi quinquies ducena.
Politimo corre dietro le ragazze;
Ipno controvoglia ammette di esser un maschietto;
Secondo ha natiche nutrite con ghiande;
Dindimo è effeminato, ma desidererebbe non esserlo;
5 Amfione avrebbe potuto nascer fanciulla.
preferisco i loro favori ed altezzosità,
ed anche la loro lamentosa arroganza, o Avito,
al ricever un dono di cinque volte duecentomila sesterzi.
3] Pastas glande natis habet Secundus: Secondo ha natiche nutrite con ghiande. La ghianda (glans, glandis) è una metafora per il glande del pene, volgarmente e popolarmente noto come cappella; quindi Secondo nutriva le proprie natiche di cappelle, o, in altre parole, era giornalmente sodomizzato.
Epigrammaton Liber XII carmen 77
Multis dum precibus Iovem salutat
stans summos resupinus usque in ungues
Aethon in Capitolio pepedit.
Riserunt homines, sed ipse divom
offensus genitor, trinoctiali
adfecit domicenio clientem.
Post hoc flagitium misellus Aethon,
cum vult in Capitolium venire,
sellas ante petit Paterclianas
et pedit deciesque viciesque.
Sed quamvis sibi caverit crepando,
compressis natibus Iovem salutat.
Nel mentre che con veementi suppliche invocava Giove
sistemato faccia all'insù appena sotto le unghie del dio
Etone sparò una scorreggia nel Campidoglio.
I presenti risero, ma il dio padre si offese,
e ordinò al cliente di mangiare in casa per tre giorni.
Dopo questa vergogna quel poveretto di Etone,
quando desidera andare sul Campidoglio,
preferisce prima sedersi ai cessi di Paterclio
e tirare almeno dieci o venti correggie.
Ma sebbene crepitando abbia preso le sue precauzioni,
ora rende omaggio a Giove tenendo le chiappe ben strette.
Carmen Priapea 7
Cum loquor, una mihi peccatur littera; nam T(e)
P(e) dico semper blaesaque lingua mihi est.
Il priapo bleso
Quando parlo, con una lettera mi sbaglio; invece di T(e)
io P(e)-dico sempre, ma è la mia lingua blesa.
Un divertente gioco di parole: tenendo presente che per pronunciare T e P i romani dicevano Te e Pe mentre oggi noi diciamo Ti e Pi, per dirci che scambia la T con la P il Priapo afferma:
Nam T(e) P(e) Dico Semper: invece di T(e) io dico sempre P(e),
ma contemporaneamente afferma anche:
Nam Te Pedico Semper: dal momento che io sempre ti inculo;
un lapsus linguae che ha qualcosa di freudiano: il priapo a causa del difetto di pronuncia ci svela lo scopo della sua esistenza: sodomizzare sempre; e nella conclusione, quasi a scusarsi, sembra voler suggerire che la sua ineluttabile propensione naturale sia semplicemente il frutto del suo difetto linguistico.
blaesus, blaesi: bleso: avere un difetto di pronuncia, pronunciare confusamente alcune consonanti.
Carmen Priapea 11
Ne prendare, cave, prenso nec fuste nocebo,
saeva nec incurva vulnera falce dabo:
traiectus conto sic extendere pedali,
ut culum rugam non habuisse putes.
Attento, ch'io non (ti) prenda! Se (ti) prendo non farò male col bastone,
né infliggerò crudeli ferite col falcetto ricurvo:
infilzato dal (mio) palo lungo un piede sarai così allargato,
da poter credere di non avere più rughe sul buco del culo.
Carmen Priapea 13
Percidere puer, moneo: futuere puella:
barbatum furem tertia poena manet.
Io vi avviso, tu ragazzo sarai inculato: tu ragazza fottuta:
per il furtivo ladruncolo barbuto rimane la terza pena.
la terza pena: si riferisce alla irrumatio, la penetrazione del pene nella bocca.
Barbatum: con la barba, per indicare genericamente un uomo adulto, distinguendolo dal giovane, per il quale prevede la prima pena.
Carmen Priapea 17
Quid mecum tibi, circitor moleste?
ad me quid prohibes venire furem?
accedat, sine: laxior redibit.
Il guardiano molesto
Cosa vuoi da me, fastidioso sorvegliante?
Perché impedisci al ladruncolo di venire a me?
Che entri, senza difficoltà: tornerà indietro più rilassato.
Carmen Priapea 22
Femina si furtum faciet mihi virve puerve,
haec cunnum, caput hic praebeat, ille nates.
Se una femmina mi deruberà o se lo farà un uomo o un ragazzo,
Questa mi metterà a disposizione la fica, questo la testa, quello le natiche.
Carmen Priapea 29
Obscaenis, peream, Priape, si non
uti me pudet inprobisque verbis.
sed cum tu posito deus pudore
ostendas mihi coleos patentes,
cum cunno mihi mentula est vocanda.
Ch'io potessi morire, Priapo, se non dovessi
vergognarmi di usar parole oscene e immorali.
Ma quando tu, un dio, deposto ogni pudore,
mi mostri i (tuoi) coglioni rigonfi,
a me non resta che invocare fica e cazzo.
cum cunno mihi mentula est vocanda: allora devo chiamare a me fica e cazzo.
Carmen Priapea 31
Donec proterva nil mei manu carpes,
licebit ipsa sis pudicior Vesta.
sin, haec mei te ventris arma laxabunt,
exire ut ipsa de tuo queas culo.
Finché l'impudente mano non deprederà qualcosa di mio,
ti sarà concesso restar più pudica di Vesta stessa.
In caso contrario, quest'arma del mio ventre ti allargherà,
tanto che tu stessa sarai in grado di uscir dal tuo culo.
La punizione del Priapo non è quella canonica, che per la donna è la penetrazione vaginale; Scioppius (XVII secolo) sostituiva culo con cunno.
Carmen Priapea 33
Naidas antiqui Dryadasque habuere Priapi,
Et quo tenta dei vena subiret, erat
Nunc adeo nihil est, adeo mea plena libido est,
Ut Nymphas omnis interiisse putem.
Turpe quidem factu, sed ne tentigine rumpar,
Falce mihi posita fiet amica manus.
Gli antichi Priapi erano allietati da Naiadi e Driadi
e dove il manico del dio vedeva una fessura, lì si ficcava.
Oggi più nulla posso violentare, nulla che il mio gonfio desiderio possa possedere,
tanto che mi vien da pensare che tutte le Ninfe sian state sterminate.
Sì, lo so, è una cosa ignobile, ma onde non fiaccar la mia dissolutezza,
deposta la falce con la mano amica ora mi farò una sega.
Il Priapo rimpiage la licenziosità dei tempi antichi; probabilmente viveva ai tempi della moralizzazione dei costumi voluta da Ottaviano Augusto.
Nais Naidis, Nais Naidos: Naiade, ninfa delle acque.
Dryas, Dryadis: Driade, ninfa dei boschi.
Turpe quidem factu: è un fatto certamente disgustoso.
mihi fiet amica manus: la mano mi sarà amica.
Carmen Priapea 41
Quisquis venerit huc, poeta fiat
et versus mihi dedicet iocosos.
qui non fecerit, inter eruditos
ficosissimus ambulet poetas.
Dedica
Chiunque giunga qui, si faccia poeta
e mi dedichi spassosi versi.
Chi non dovesse farlo, vada tra eruditi poeti
a passeggiare con emorroidi grosse (come fichi).
ficus, fici: fico ma anche emorroidi;
ficosissimus: superlativo di ficosus; vedi anche I.65 e VII.71;
Le emorroidi erano considerate un problema tipico degli omosessuali che avevano rapporti anali (cinaedus, pathicus); quindi è sottinteso che colui che si fosse recato a passeggiare tra gli eruditi poeti sarebbe stato prima sodomizzato, presumibilmente dal priapo stesso, per un tempo sufficiente a fargli venire le emorroidi.
Carmen Priapea 54
CD si scribas temonemque insuper addas,
qui medium volt te scindere, pictus erit.
Rebus
Se scrivi CD e aggiungi in alto un'asta,
(quello) che desidera aprirti in due, (lo) disegnerai.
un'asta aggiunta superiormente alle lettere C e D potrebbe essere interpretata come: CID
Carmen Priapea 56
Derides quoque, fur, et impudicum
ostendis digitum mihi minanti?
eheu me miserum, quod ista lignum est,
quae me terribilem facit videri.
mandabo domino tamen salaci,
ut pro me velit irrumare fures.
Il dito medio
Ed in aggiunta (tu), ladro, mi deridi ed alle mie minacce
esibisci l'impudico dito (medio)?
Ah me infelice! Ahimé, giacché questo, che mi rende
tanto spaventoso allo sguardo, è (sol) legno.
Ma raccomanderò al libidinoso signore (padrone di questo campo),
che si prenda il piacere di fottere in bocca i ladri al mio posto.
quoque...: ed in aggiunta (ad aver derubato il mio campo tu)...;
impudicum digitum: il dito impudico, svergognato: il dito medio.
Carmen Priapea 63
Parum est mihi quod hic fixi † sedem,
agente terra per caniculam rimas
siticulosam sustinemus aestatem;
parum, quod hiemis perflu(u)nt sinus imbres
5 et in capillos grandines cadunt nostros
rigetque dura barba vincta crystallo;
parum, quod acta sub laboribus luce
parem diebus pervigil traho noctem.
huc adde, quod me (de rudi vilem) fuste
10 manus sine arte rusticae dolaverunt,
interque cunctos ultimum deos numen
cucurbitarum ligneus vocor custos.
accedit istis impudentiae signum,
libidinoso tenta pyramis nervo.
15 ad hanc puella - paene nomen adieci -
solet venire cum suo fututore,
quae tot figuras, quas Philaenis enarrat,
non † inventis pruriosa discedit.
Fatiche di Priapo
È per me poca cosa dimorare qui immobile,
dove la terra si crepa per la canicola
sopportando l'arida siccità estiva;
è poca cosa che le piogge invernali mi scorrano addosso curvandomi
5 e che cada la grandine sui miei capelli
ed anche che la ruvida barba si indurisca imprigionata dal ghiaccio;
poco che, dopo aver lavorato con la luce,
come di giorno sia costretto a vigilar (anche) la notte.
A questo, aggiungi che le mani d'un inesperto contadino
10 mi sbozzarono da un rozzo tronco di nessun valore,
e che, ultimo degli dei tra tutte le divinità,
vengo chiamato il ligneo custode delle zucche.
Aggiungi a tutto ciò il simbolo dell'impudenza,
la piramide saldamente tirata su dal libidinoso nervo virile.
15 A questo una ragazzotta - quasi (ne) aggiungerei il nome -
suol venire accompagnata da quello che se la fotte,
la quale se non riprova (su di me) tutte le posizioni descritte da Fileni,
se ne va per la sua strada con un insaziato desiderio.
Carmen Priapea 64
Quidam mollior anseris medulla
furatum venit huc amore poenae:
furetur licet usque, non videbo.
Il molle desiderio d'espiazione
Un certo tizio più sfranto di qualunque checca
vien qui a rubare per desiderio della pena:
che rubi pure quanto vuole, io non vedrò.
mollior anseris medulla: più molle del midollo d'oca; gli effeminati molto spesso erano riferiti usando il termine molle (Marziale, Orazio): Agg. mollis, mollis, molle; il suo uso non fa' necessariamente riferimento alla sfera sessuale ma solo al loro essere effeminati.
Carmen Priapea 69
Cum fici tibi suavitas subibit
et iam porrigere huc manum libebit,
ad me respice, fur, et aestimato,
quot pondo est tibi mentulam cacandum.
Valutazioni
Se per caso la delizia del fico ti attraesse
ed ora tu avessi piacere di allungare la mano su questo luogo,
dammi prima un'occhiata, ladro, e valuta attentamente,
quanto pesa il cazzo che ti toccherà cacare.
Carmen Priapea 95
Q. Orazio Flacco, Sermo I.VIII
Gli esorcismi di Sagana e Canidia
Plauto - Fragmenta: Nervolaria - da Aulo Gellio in Noctes Atticae III.3.6
III.3.6
Favorinus quoque noster, cum Nervulariam Plauti legerem, quae inter incertas habita est, et audisset ex ea comoedia versum hunc:
scrattae, scrupedae, strittivillae, sordidae,
delectatus faceta verborum antiquitate meretricum vitia atque deformitates significantium:
"vel unus hercle" inquit "hic versus Plauti esse hanc fabulam satis potest fidei fecisse".
scrattae, scrupedae, strictivillae, sordidae
Il nostro Favorino, mentr'ero intento a leggere La Nervolaria di Plauto, che è fra le commedie ritenute incerte (nell'essergli attribuite), avendo udito questo verso:
"avanzano, frivole e sprezzanti, ancheggianti e traballanti, nella città severe e miserande",
deliziato dall'arguzia di quelle antiche parole così espressive dei vizi e dei difetti delle prostitute, soggiunse:
"Per Ercole unico e possente! Basta questo sol verso per poter onestamente credere che questa favola sia di Plauto!"
scrattae, scrupedae, strictivillae, sordidae:
Ap. Varronem: scrantiae, scrupedae, stritabillae, tantalae;
Ap. Festum: scraptae;
Ap. Nonium: scraptae, scrupedae, strictivillae, sordidae;
Regius: scrattae, scrupedae, strittivillae, sordidae;
Tertius: stracte strupe destrati nilbe sordidae;
In antiquiss. cod. Nonii: estrate crupedae strictibellae sordidae;
scrattae: nugatoriae ac despiciendae mulieres;
scrupeda, ae: zoppicare, traballare, camminare barcollando; camminare dinoccolato; quae egre admodum incedunt quasi lapillos et scrupos pedibus premerent: che avanzano in modo estremamente incerto, quasi camminassero sul pietrame, poggiando i piedi con apprensione e con tormento;
strictivillae: strictus + villae;
strictus: ben fisso, ben saldo, sorvegliato, rigido, severo, teso;